Avere vent’anni: RIVERSIDE – Out of Myself
Out of Myself, l’album di esordio dei polacchi Riverside, è la prima parte di un’odissea musicale che si dipanerà nel corso di altri due successivi album. Sin da questo primo disco si evidenziano le capacità dei Riverside di proporre un progressive rock molto personale, evitando eccessivi prestiti da altre band – sebbene questi siano riconoscibili e in certi passaggi il disco evochi atmosfere decisamente “marillioniane” e “pinkfloydiane” – e regalando all’ascoltatore una musica fatta di ricche tessiture sonore, a cui si aggiungono testi che uniscono emozione e introspezione. Dalle note iniziali agli echi finali, l’album si svela come un viaggio coeso che mette in mostra l’eccezionale maestria musicale e la solida proposta artistica della band, qualcosa che sapeva di novità al principio degli anni 2000.
Per quanto riguarda la parte strumentale, l’album è un’ottima prima testimonianza dell’abilità dei Riverside nel creare intricate – ma non cervellotiche – strutture musicali. La destrezza esecutiva della band si evidenzia particolarmente nella capacità di creare una diversificata tavolozza sonora, che spazia da momenti eterei e atmosferici a passaggi più potenti e rocciosi.
Dal punto di vista dei testi, Out of Myself è appunto il primo episodio di una trilogia – chiamata Reality Dream – che narra la complicata relazione di un uomo affetto da schizofrenia con il sentimento dell’amore, e nel disco vengono approfondite le complessità della scoperta di sé e della contemplazione esistenziale. La natura poetica dei testi aggiunge un ulteriore livello di profondità alla proposta dei Riverside, invitando gli ascoltatori a intraprendere un viaggio introspettivo insieme alla musica. I temi dell’identità e dell’introversione sono intrecciati lungo tutto l’album e forse possiamo apprezzare uno dei momenti più riusciti proprio nella prima canzone, The Same River, dodici minuti sempre sul pezzo e mai noiosi.
Dove le canzoni sono strumentalmente meno interessanti, per esempio nella ballata In Two Minds, subentra l’abilità del cantante a spezzare la monotonia, con interpretazioni che alzano notevolmente il valore della composizione. La performance vocale aggiunge un tocco in più ai paesaggi musicali di Out of Myself, trasmettendo una gamma di emozioni che arricchiscono l’esperienza d’ascolto complessiva. Il disco è forse un ottimo esempio di equilibrio tra parti strumentali e cantato, sicuramente una delle principali forze dell’album.
Dal punto di vista stilistico, Out of Myself dimostra la padronanza da parte dei Riverside degli elementi classici del progressive rock, incorporando tempi musicali complessi, canzoni con strutture non convenzionali e arrangiamenti ricercati, molto ricchi armonicamente. Nonostante ciò, l’album non è un lavoro “di nicchia” e testimonia la capacità della band di saper colmare il divario tra complessità e accessibilità della musica, e credo possa risultare gradevole anche ai non patiti di progressive.
In conclusione, Out of Myself è un esordio solidissimo. La capacità dell’album di catturare l’ascoltatore su più livelli, dalla brillantezza tecnica delle parti strumentali ai temi profondi esplorati nei testi, lo consacra come un punto di riferimento nel genere progressive rock. Il debutto dei Riverside è una testimonianza della loro maestria artistica e ha gettato le basi per una carriera oramai ventennale costellata di successi che, nel momento in cui scrivo, è costituita da otto validi album in studio, tre dischi live e svariati tour. (Bartolo da Sassoferrato)



Ho sempre pensato che il loro vero punto di forza sia la voce. Senza una linea vocale di questo tipo, molti dei pezzi risulterebbero piuttosto nella media e poco memorabili.
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