Da Alf a Super Vicki, cinque attori che hanno fatto una fine orribile

ALF (Alien Life Form) è stata una delle sitcom statunitensi più seguite della seconda metà degli anni Ottanta, sia in patria che all’estero. Il telefilm, nato da un’idea del marionettista/produttore Paul Fusco e andato in onda dal 1986 al 1990, non ha mai avuto vita facile. La prima stagione era stata pensata per un target adulto: ALF, un alieno finito per sbaglio sulla Terra dopo essere fuggito dal pianeta Melmac a bordo della sua astronave scassata, era sboccato, faceva battute non politicamente corrette, si ubriacava e inoltre tentava spesso di divorare il gatto della famiglia terrestre che lo ospitava, i Tanner (una coppia borghese di mezza età con due figli, una liceale e un bambino delle elementari).

Nonostante gli intenti dell’ideatore, la serie fu seguita sin da subito da un pubblico composto in larga parte da giovanissimi, pertanto, a partire dalla seconda stagione, la produzione fu costretta ad adattare le sceneggiature al nuovo target di riferimento, soprattutto a causa delle numerose lettere di protesta di molti genitori statunitensi infuriati, dovute principalmente al fatto che i loro pargoletti pare avessero acquisito l’abitudine di imitare i comportamenti del cafonissimo alieno (tentativi di gatticidio compresi).

Per le scene in cui ALF era ripreso a mezzobusto veniva utilizzata una marionetta, animata e doppiata dallo stesso Paul Fusco, mentre per quelle a figura intera – più rare – la produzione ingaggiò un attore affetto da nanismo alto soltanto 83 centimetri, Mihaly Meszaros, conosciuto nel mondo dello spettacolo con il nome d’arte di Michu. Per mettere in scena le sequenze in cui veniva adoperato il fantoccio, il set era stato riempito di botole: sia gli attori che le maestranze ci cadevano dentro puntualmente durante le riprese, talvolta ferendosi anche gravemente.

Il membro del cast che ebbe più problemi a girare, però, fu Max Wright, che nella serie interpretava Willie Tanner. A differenza del suo personaggio, un rassicurante padre di famiglia ultraquarantenne/occhialuto/stempiato, l’attore era un soggetto psicotico. Nonostante avesse un curriculum poco più che mediocre, Max si sentiva continuamente sminuito e non tollerava che il protagonista della serie fosse un pupazzo: in diverse occasioni, in preda a delle vere e proprie crisi di nervi, si scagliò contro l’inerme marionetta, sino ad arrivare a romperla. Terminate le registrazioni dell’ultima puntata dello show, tra l’altro scritta e sceneggiata alla carlona a causa dell’improvvisa cancellazione di ALF dai palinsesti dovuta a motivazioni mai rese note ufficialmente, Wright andò via sbattendo la porta e senza salutare nessuno.

Negli anni Novanta la vita di Max subì due colpi pesanti: il divorzio dalla sua storica moglie e la battaglia contro un linfoma. Nei primi anni 2000 l’attore venne arrestato più volte per guida in stato di ebbrezza e inoltre sviluppò una grave dipendenza dal crack. Nel 2012 l’ex co-protagonista di ALF girò un porno gay amatoriale in cui, oltre a fumare degli stupefacenti davanti alla telecamera, consumò dei rapporti sessuali non protetti con due senzatetto. Rispondo subito alla domanda che molti di voi si staranno sicuramente ponendo: sì, avete letto bene. Questa scabrosa vicenda fu la pietra tombale sulla carriera di Max Wright: non lavorò mai più sino alla sua morte, avvenuta nel 2019. C’è chi dice che sia deceduto a causa di una recidiva del linfoma, altri invece sono convinti che sia morto in quanto malato di AIDS da tempo. Aveva 75 anni.

Il piccolo grande mago dei videogames, fortunatissimo film di Tom Holland del 1989, è un vero e proprio culto per molti della mia generazione. Riguardato anni dopo, da adulti, si mostra brutalmente per ciò che è sempre stato: una porcheria vergognosa con una trama a dir poco ridicola, praticamente un lunghissimo spot della Nintendo, con tanto di anteprima di uno dei titoli più famosi del colosso videoludico giapponese, Super Mario Bros 3. Chi ha visto la pellicola, magari anche soltanto una volta, ricorderà quasi certamente uno dei villain della storia: il temibilissimo videogiocatore Lucas Barton, interpretato da Jack Jackey Vinson, ai tempi tredicenne (avete presente la scena del guanto magico? Ecco: è lui).

L’ex attore bambino, classe 1976, cominciò a recitare, appena undicenne, in una commedia americana di serie B, Doppia esposizione, per poi proseguire  – due anni più tardi – con, appunto, Il piccolo grande mago dei videogames, il suo picco massimo. Dopo un altro filmetto da videoteca nel 1992 e un cameo in una puntata della seguitissima Serie Tv Law&Order nel 1996, Vinson uscì per sempre dal mondo dello spettacolo. La sua carriera è tutta qui. A questo punto qualcuno di voi si aspetterà, come logica conseguenza, un prosieguo a base di rapine e furti per sbarcare il lunario, ma la realtà dei fatti è ben peggiore. Nel 2004 Jack Vinson fu inserito nel registro dei sex offenders dell’area di New York per aver molestato sessualmente dei bambini. La sopracitata scena del guanto magico, a distanza di più di tre decenni, suona davvero sinistra.

Paolo Calissano sembrava una persona fortunata sin dal principio, una di quelle davvero nate con la camicia: era il figlio di un ufficiale dell’aeronautica militare, proveniente tra l’altro da una famiglia genovese molto facoltosa, e di una nobile, Mercedes Galeotti de’ Teasti dei conti di Mantova. Nella seconda metà degli anni Ottanta, terminato il liceo, andò a studiare economia a Boston, negli Stati Uniti. Dopo la laurea rientrò in Italia e cominciò a lavorare nel mondo dello spettacolo. Nel 1993 fu uno dei conduttori di Giochi senza frontiere. Nello stesso anno cominciò una collaborazione triennale con il marchio Algida, per il quale girò diversi spot pubblicitari, poi prese il volo. Nella seconda metà degli anni Novanta Paolo Calissano presentò diverse trasmissioni sulle televisioni nazionali (8mm su Italia 1 probabilmente è la più nota) e recitò sia al cinema che in molteplici fiction, tra cui la seguitissima soap opera Vivere. Escludendo la telenovela all’italiana appena menzionata, l’attore genovese non fu mai parte integrante di produzioni particolarmente importanti, ma lavorò molto e soprattutto costantemente per quasi tutto il decennio, diventando praticamente subito un sex symbol.

L’inizio del nuovo millennio per lo showman ligure rappresentò una sorta di punto di non ritorno: visto il fisiologico calo di popolarità, Paolo cercò di rilanciarsi partecipando nel 2004 al popolare reality show L’isola dei famosi, ma abbandonò quasi subito la trasmissione a causa di un infortunio. L’anno successivo la sua vita cambiò per sempre: il 25 settembre del 2005 una ballerina brasiliana, Ana Lucia Bandeira Bezerra, morì di overdose nell’appartamento genovese di Calissano, mentre era in compagnia dell’attore. In un armadio furono rinvenuti 30 grammi di cocaina e Paolo fu arrestato con l’accusa di aver ceduto la sostanza stupefacente alla ragazza. In sede processuale, dopo un patteggiamento, Calissano fu condannato a quattro anni, che scontò presso una comunità di recupero per tossicodipendenti della provincia di Torino.

Nel 2008, a seguito di un incidente stradale, fu trovato positivo alla cocaina e a dei non meglio precisati allucinogeni. I risvolti giudiziari non vennero mai resi noti e non si parlò più di lui per molto tempo. Il 30 dicembre 2021, dopo oltre un decennio di quasi totale anonimato, Paolo Calissano venne trovato morto nella sua abitazione romana: intossicazione da psicofarmaci. Aveva 54 anni.

Roberto Corbiletto era il classico attore del quale molti conoscono il viso, ma ben pochi il nome. La sua carriera è impreziosita da diversi film noti, ma in cui lui aveva sempre interpretato ruoli secondari. Io, ad esempio, l’ho conosciuto tramite uno dei capolavori di Mario Monicelli, Parenti serpenti del 1992 (è il prete che celebra la Messa natalizia), ma nel curriculum dell’attore laziale – nato ad Anguillara Sabazia, in provincia di Roma, nel 1949 – ci sono anche altre collaborazioni lavorative prestigiose, tra le quali è impossibile non citare Roberto Benigni (Il piccolo diavolo nel 1988 e Il mostro nel 1994) e Federico Fellini (La voce della luna, 1990). La fine dell’esistenza di Corbiletto è, senza esagerare, una delle più inquietanti e misteriose di sempre.

Roberto morì il 7 marzo del 1999 in un casolare di campagna a causa di un incendio. Fin qui niente di strano: è una fatalità abbastanza comune. Nel caso di specie, però, c’è una particolarità più unica che rara: le forze dell’ordine non ritrovarono un corpo carbonizzato, come accade praticamente sempre nelle disgrazie di questo tipo, bensì letteralmente incenerito, al punto da rendere impossibile alla Polizia Scientifica l’estrazione del DNA. Tra gli inquirenti e i periti si scatenò un dibattito: sostanzialmente emerse che in quella circostanza non ci fossero le condizioni atte a ridurre un essere umano in cenere (sono necessarie temperature elevatissime e costanti per almeno sei ore). Alcuni ipotizzarono che l’attore fosse stato colpito da un fulmine, ma anche questa versione venne confutata. Nella cronaca nostrana non c’erano precedenti paragonabili alla spaventosa fine del caratterista, quindi fu possibile solo ed esclusivamente fare delle ipotesi.

Roberto Corbiletto era inoltre parte attiva di un culto, la Via romana agli dei, una riproposizione moderna delle credenze religiose dell’Antica Roma. Anche altri membri del succitato gruppo tradizionalista romano-italico morirono prematuramente in circostanze poco chiare (uno di loro fu addirittura ucciso a colpi d’arma da fuoco da mano ignota). Qualcuno ai tempi ipotizzò che l’attore stesse eseguendo un rituale, perché pare che il giorno del suo decesso fosse in qualche modo sacro a Giove. Questa vicenda, insomma, sembra un misto tra un giallo, un horror di serie b degli anni Ottanta ed un thriller, ma purtroppo è invece una storia tragicamente reale. A distanza di quasi venticinque anni, la morte di Roberto Corbiletto rimane avvolta nel mistero.

Super Vicki (e non “Vicky”, come scrivono in molti) più che una sitcom fu una sorta di miracolo. Andato in onda negli Stati Uniti dal 1985 al 1989 con il titolo originale di Small Wonder, il telefilm venne concepito come prodotto a basso costo senza pretese destinato alla Tv, ma inaspettatamente ebbe un successo spropositato, soprattutto all’estero (anche nel nostro Paese).

La sinossi è ai limiti del demenziale: Ted Lawson, un ingegnere, sviluppa il prototipo di un robot dalle fattezze di una bambina, Vicki, in grado di fare sostanzialmente tutto ciò che fanno gli esseri umani, ma chiaramente molto meglio. Per evitare che il progetto gli venga rubato, Ted finge che la robottina sia sua figlia e la inserisce nella sua famiglia, composta da sua moglie Joan e da suo figlio Jamie. Gradualmente i Lawson cercano di inserire Vicki nella società civile, per farle apprendere il comportamento umano e renderla quindi una sorta di super androide enciclopedico o qualcosa del genere.

Le trame delle puntate erano quanto di più stupido e stucchevole ci fosse in quegli anni, tra moralismo spicciolo made in Usa, equivoci continui ed effetti speciali da barzelletta.

Il figlio biologico dei Lawson era interpretato da Jerry Supiran, sul quale ai tempi girava una risibile leggenda metropolitana. L’attore bambino somigliava molto vagamente a Billy Corgan degli Smashing Pumpkins, motivo per cui per anni in mezzo mondo, Italia compresa, girava la voce che i due fossero la stessa persona. Il noto frontman, tra l’altro, quando iniziarono le riprese di Super Vicki aveva già diciotto anni (è nato nel 1967, mentre Supiran è un classe 1973). Terminata la serie, Jerry non lavorò più nel mondo dello spettacolo, ma negli anni d’oro aveva accumulato un discreto patrimonio (circa mezzo milione di dollari). Nei primi anni Novanta, a nemmeno vent’anni, l’ex attore intraprese una relazione sentimentale con una pornostar. È facile intuire come sia finita: Jerry Supiran, alias Jamie Lawson, sperperò tutto e finì a vivere in un rifugio per senzatetto in California. (Il Messicano)

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