La finestra sul porcile: Pet Sematary – Bloodlines

Non era per niente facile far peggio di Cimitero Vivente II del 1992. Pensate che quel film quasi troncò la carriera dell’allora lanciatissima Mary Lambert, tant’é che non avrebbe più diretto nulla per tutto il decennio, eccezion fatta per qualche lavoretto per la televisione. Anche in quel caso il cast era interessante, da Edward Furlong all’Anthony Edwards di Top Gun passando per Clancy Brown, il cattivissimo di Highlander.

Pure il reboot di quattro anni fa godeva di un buon gruppo d’attori, con Jason Clarke (Everest) protagonista e John Lithgow (Dexter IV) nei panni del cruciale Jud Crandall. Il nuovo Cimitero Vivente, o, se preferite, Pet Sematary, è un prequel e ce lo suggerisce il sottotitolo Bloodlines. Stephen King, autore del romanzo originale del 1983, ha già fatto i complimenti di routine alla regista esordiente Lindsey Anderson Beer, che sinora aveva soltanto sceneggiato un paio di film fra cui – allacciate le cinture – uno intitolato Sierra Burgess è una sfigata. Cosa abbia spinto il produttore Lorenzo di Bonaventura (!!!) a cambiare regia dopo i risultati accettabili di quattro anni fa, lo sanno solo alla A.C. Fiorentina. Aggiungo solo che è assodata consuetudine che Stephen King copra di complimenti ogni porcata cinematografica riferita alle sue opere storiche e non, il che è sintomo di royalties che vengono giù come grandine.

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Il film puzza di bruciato già per il fatto che i nomi di spicco sono tutti, proprio tutti, relegati a una particina secondaria: c’è David Duchovny, c’è Pam Grier, c’è perfino Elliot, l’amico di E.T. – l’Extraterrestre alias Henry Thomas. Gli altri, in particolar modo i protagonisti della vicenda, non so chi cazzo siano ma una cosa è certa: devono essere costati pochissimo al poco indulgente Lorenzo di Bonaventura.

Il problema di oggi è che gli sceneggiatori in crisi, fra scioperi, politically correct e woke si sono inventati questa scappatoia degli “universi” per tirare avanti la carretta senza doversi inventare più niente. In pratica tu prendi un “universo”, come quello di Amity Island e de Lo Squalo, e, nel giro di quattro film, arrivi davvero a raccontare a milioni di persone che quel pesce s’è fatto la tratta marina da Martha’s Vineyard alle Bahamas per finire di sterminare la famiglia Brody. Ma questo accadeva negli anni Ottanta, allorché Joseph Sargent diresse quell’obbrobrio, figuriamoci se non continua ad accadere oggigiorno e in quali proporzioni. In un “universo” puoi inventarti di tutto: scombinare le linee temporali, scrivere un film senza tener conto dei tre precedenti o ripartire da un capitolo che tieni particolarmente a cuore. Questa cosa vien sempre in aiuto degli sceneggiatori, i quali, su basi così friabili, finiscono regolarmente per imbastire puttanate gigantesche senza capo né coda. Questa coda non viene mai in aiuto di chi vorrebbe godersi un buon film.

L’universo di Ludlow prevede che, nel bosco adiacente il paese, i cocciuti indiani Micmac avessero eretto come monito un piccolo cimitero degli animali di fianco a una barriera di legname. Chiunque l’avesse oltrepassata si sarebbe avventurato in terreni proibiti con la possibilità di raggiungere l’altro cimitero, la cui terra è corrotta e fa risorgere i morti.

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Poi ci sono i camion della Orinoco, altro grosso problema territoriale.

La Beer, così chiamerò d’ora in poi la regista poiché così si chiama, e così mi piace, su supervisione di Lorenzo di Bonaventura (!!!) ha scelto di riportare la linea temporale agli anni in cui Jud Crandall (l’anziano vicino di casa della famiglia Creed nel film del 1989 e nel suo remake) disertò il militare e di conseguenza il Vietnam grazie a un certificato medico, diciamo, forzato. Considerata la differenza d’età fra il giovane Jud Crandall e l’anziano Jud Crandall, è ovvio che si sia tenuto conto del solo remake con Jason Clarke, altrimenti avrebbe saltato la Seconda Guerra Mondiale e non il Vietnam.

Caso vuole che l’amico di infanzia Timmy Baterman in Vietnam ci sia andato davvero, e indovinate: è tornato dentro a una cassa da morto. Non solo. Nessuno è venuto a saperlo in un paesino di mille anime, e il padre Bill, David Duchovny, ha avuto tutto il tempo per portarlo oltre l’antico cimitero degli animali, seppellirlo e permettere che tornasse in vita.

Esattamente come la bambina zombie logorroica del remake di quattro anni fa, il nostro Timmy rinasce chiacchierone e comincia a dir male di tutta Ludlow. Il che giustifica come mai nessuno si sia accorto del fattaccio: se stai in un paesino e sparli della gente, sei semplicemente uno di loro. Di certo non un morto che cammina. Ma qui no, siamo in un universo cinematografico moderno e i morti di Ludlow chiacchierano, spettegolano e addirittura rapiscono le biondine.

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Il film tenta poi d’esplorare una strada che avrebbe anche potuto generare dei risultati. Non tanto l’approfondire il perché i morti rinascano da quel terreno sconsacrato – classico spiegone di cui faremmo sinceramente a meno – ma il comportamento dei cittadini di Ludlow negli anni a fronte di tutto ciò. La segretezza, i ruoli di alcuni di loro nell’arginare il diffondersi del morbo, il passaggio del testimone nelle generazioni a venire. Peccato che l’intera faccenda sia gestita veramente di merda, camion inclusi, che in questo caso non servivano a trebbiare alcun bambino, o gatto, ma hanno voluto metterceli lo stesso in segno di brand.

A proposito di brand, c’è ancora una volta il malcapitato pet e stavolta è toccato nuovamente al cane. Ma l’effetto non è lontanamente paragonabile al terrificante, ottimo Church di quattro anni fa.

Pet Sematary: Bloodlines non fa paura, non mette sconforto, non genera tensione. Mai. Neanche una volta. È un tripudio di rumori di viscere ogni qualvolta Timmy o qualche altro villain s’accinge ad accoltellare, colpire o anche solo sbucciarsi la pelle di un dito. Come se ci fosse un tizio con un microfono accanto a uno che sta lavorando il maiale, estraendo in quel momento le budella di quello sfortunato porco, e un altro che dicesse Buona! e adoperasse il campionamento su metà film. Roba che nemmeno i gruppi elettronici tedeschi negli anni Ottanta.

L’universo di Pet Sematary si regge sull’errata elaborazione del lutto, del dolore, è una storia che narra di “persone che toccano il fondo”. È una storia che necessita della sola Zelda contorta con la spina dorsale in fuori per non farvi dormire mai più. Se avete scelto di spostare il tiro su altro, almeno fatelo in maniera decente. Perché di horror di questo infimo livello ne abbiamo anche troppi sulle piattaforme, e, caro algoritmo, faremmo volentieri a meno che s’intitolassero come i classici a noi cari. (Marco Belardi)

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