KEEP OF KALESSIN – Katharsis

Mi sfugge il motivo per cui i Keep of Kalessin siano considerati un po’ dei paria nel contesto del black metal, quello norvegese in particolare. Tolto il solo Epistemology, l’album uscito otto anni fa che fino ad oggi rappresentava l’ultimo episodio discografico in ordine cronologico e che effettivamente non era al massimo delle loro potenzialità, ogni loro opera è più che notevole, artisticamente valida e malvagia quanto basta, o forse un po’ di più. Fin dall’esordio Through Times of War le potenzialità del gruppo sono sempre state evidentissime: a comporre un disco come Armada non riescono mica tutti, e a bissarlo con Kolossus e con Reptilian ancora in meno. Il fatto che – a torto – siano spesso stati accostati ai Dimmu Borgir penso sia una delle cause, ma la musica dei Keep of Kalessin è decisamente più violenta, più varia e meno plastificata, con una violenza e una cattiveria non di facciata, spaventosamente più genuina e credibile di molti loro colleghi.

Katharsis è il loro settimo full ed è, come prassi, violentissimo. Molto melodico, certo, perché sempre di black sinfonico si sta parlando. Le tastiere hanno un certo rilievo, rotonde, riempitive e d’effetto, utilizzate talvolta con suoni elettro-cibernetici moderni che danno alle composizioni un tocco d’originalità in più, senza sprofondare in abissi di strame come per esempio fecero i Thyrane nel deleterio Hypnotic, disco del quale non si parla mai male a sufficienza, oppure i Covenant/The Kovenant o come cazzo si sono fatti chiamare quando si sono messi a suonare quella specie di cyber/post black assurdo.

Il truce faccione di Obsidian Claw, che in questo capitolo si occupa di voce, chitarra e tastiere, ci introduce al disco che parte con una triade di canzoni che hanno l’aggressione pura come comune denominatore. Katharsis, Hellride e The Omni sono tre legnate mica da ridere, War of the Wyrm concede un attimo di pausa essendo meno impostata su velocità tritatutto ma la pausa di riflessione è breve, perché già From the Stars and Beyond ritorna alla più consona velocità da delirio. Bello il modo con il quale O.C. non si limita a uno screaming monotono, interpretando i testi invece in modo vario ed ispirato. Pregevoli i riff, notevoli gli assoli quando presenti, encomiabile il lavoro della sezione ritmica con menzione d’onore per il batterista Wanja “Nechtan” Gröger, una mitragliatrice umana. L’unico pezzo che non mi convince più di tanto è il lentone Journey’s End, un po’ fuori contesto visto che sembra più un pezzo da gruppo epic/power metal piuttosto che da perfidissimi blackster; non che sia una brutta canzone, ma il cantato maestoso/evocativo in voce pulita, che solo sul finire del pezzo ridiventa più assimilabile alle sonorità degli altri brani, qualche perplessità me la instilla.

I pezzi sono quasi tutti di lunghezza non eccessiva, salvo i due finali: The Obsidian Expanse raggiunge i dieci minuti anche grazie ad un lungo intermezzo atmosferico di tastiere posizionato in mezzo a due parti-massacro, mentre Throne of Execration è lunga otto minuti e conclude sfrenata quello che è un ottimo disco di ritorno per una band ingiustamente e troppo superficialmente sottovalutata. Avercene, di gruppi così che scrivono dischi così. Bentornati, ragazzi. (Griffar)

2 commenti

  • Non li avevo mai ascoltati, e sono validi. Nelle ritmiche mi sembrano dei Meshuggah (primi anni 2000) più dritti, con delle aperture melodiche che richiamano appunto la Svezia e affatto la Norvegia. L’ispirazione di base mi pare un power epic da cui partono per spingere verso il death/black, e non un black di fondamenta da cui erigere monumenti aggressive. Dalla recensione mi aspettavo qualcosa alla Obtained Enslavement (uno dei picchi massimi della musica estrema)…, ma mi sono divertito ugualmente ad ascoltare questo “Katharsis”. Grazie

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  • Sempre piaciuti, non deludono neanche stavolta. Altro che Dimmu Borgir!

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