MALOMBRA – T.R.E.S.
Non volendo scomodare il Fato, che sicuramente si occupa di questioni più importanti, dovrei per lo meno citare il Caso se, trovandomi a Genova con del tempo da perdere per un treno sbagliato, ho potuto aggirarmi per i vicoli della città in una mattinata di pioggia e influenzare la navigazione per fare capolino di fronte alla vetrina della Black Widow. Lì ho trovato una copertina potente, composizione de L’Isola dei Morti di Böcklin e della maestosa Villa Pliniana, sulle rive del lago di Como. Il nome sulla copertina è Malombra, come il titolo del film del ’42, tratto dal romanzo di Fogazzaro, la cui locandina riportava la stessa composizione. Io non sapevo fosse uscito da poco un nuovo capitolo della storia del gruppo genovese. Certo, la Black Widow è poco interessata ai canali promozionali ormai più diffusi (essoterici?), però, davvero, non mi sembra notizia da poco. Obbligatorio l’acquisto. Poi, disponendo ancora di un’ora circa prima degli obblighi lavorativi, ma non disponendo di un obsoleto lettore CD, ho trovato T.R.E.S. su una comune piattaforma di diffusione musicale da lì è subito partito il primo ascolto, proprio mentre mi riaddentravo tra i vicoli di una Genova particolarmente lugubre, quel mattino. Il Caso a volte ne combina delle belle.

T.R.E.S. è un titolo che può ingannare. A parte il richiamo letterario (da Umberto Eco), parrebbe suggerire anche una progressione numerica. Ma i conti non tornerebbero: sono già tre gli album, prima di questo qui, usciti col nome Malombra stampato in copertina. L’ultimo di questi, The Dissolution Age del 2001, era però frutto di una formazione per quattro quinti rinnovata, messa insieme dopo lo sbandamento di quella storica, genitrice dell’omonimo del ’93 e di Our Lady of the Bones del ’96. Le note allegate al CD, scritte dallo stesso Renato ‘Mercy’ Carpaneto, fugano l’iniziale confusione. T.R.E.S. sarebbe un’opera di archeologia, di memoria storica del gruppo che fu. T.R.E.S. sarebbe la ricostruzione, passati venticinque anni, del disco al quale il gruppo stava lavorando e in parte stava già registrando. Registrazioni andate perse o inutilizzabili. Ecco quindi tutti gli ex membri di quell’incarnazione storica a dare ciascuno il proprio contributo. Chi suonando, producendo, registrando (oltre a Mercy, il chitarrista Matteo Ricci), chi partecipando, anche da remoto, nell’aggiungere i tasselli della memoria propria al mosaico del collettivo. Storia interessante, ma Mercy racconta di sicuro solo una parte della verità. Perché T.R.E.S. non può essere tutto qui, semplice ricomposizione di frammenti che restituiscono un monumento com’era, dov’era. Per dire, proprio nella prestazione del cantante (ma non parlo solo di voce, parlo proprio di intenzione), la pluriennale esperienza degli IANVA assume un peso non trascurabile, nello scardinare il vecchio equilibrio tra doom metal, progressive e rock gotico dei genovesi. T.R.E.S. è integralmente cantato in italiano, diversamente dalla discografia pregressa. Certo, Mercy ci racconta che il processo di mutare lingua era già in essere prima dello sbandamento. Eppure la modalità del canto, oggi, non potrebbe essere più diversa. Dismesse le vesti diafane del fantasma goth, Mercy oggi è cantore, corpo e sostanza, consapevole e presente. Ammetto che in parte sono sempre stato in difficoltà con gli IANVA proprio per tono e retorica delle parti vocali. Qui, sarà il contesto doom e progressive, non ho riserva alcuna.
Di principio, T.R.E.S. pare dare sfogo ad alcuni degli interessi intellettuali di Mercy. La lascivia simbolista della pittura preraffaelita (l’Astarte Syriaca di Dante Gabriel Rossetti). La lugubre Arcadia, così distante dall’immagine superficiale che si ha del mondo classico (Baccanalia, un brano semplicemente terribile, tra gli apici dell’album). Quale migliore modo di celebrare anche la propria storia che dedicare poi uno dei brani più lunghi del lotto proprio al romanzo di Antonio Fogazzaro da cui il gruppo ha preso nome (Malombra, appunto). Parliamo poi del Suono. Cupo, potente, asciutto ma vario e fertile, articolato tra riff doom e splendidi ricami prog. Anche a livello di suono, i trenta e passa anni sono trascorsi, certo, ma per il meglio. I Malombra non hanno mai suonato così bene. Non parlo di tecnica, parlo di evocazione. T.R.E.S. suona come deve suonare oggi un disco progressivo in Italia, con alle spalle tanta memoria e poca paura di non esserne degno.
Ci sarebbe poi da fare un discorso bello profondo e articolato sull’attualità del nostro Paese, non dal punto di vista musicale, ma sarebbe bello comunque che qualcuno lo facesse con un disco. Non mi sembra ci siano molte possibilità che ciò avvenga ad opera di qualche artista “nuovo”, recente. Toccherebbe ancora una volta quindi a quelli della generazione precedente, o di quella prima ancora. Solo che, ad esempio, Giovanni Lindo Ferretti dopo l’ottima L’Imbrunire non credo stia lavorando a qualcosa di più esteso. I Dish-Is-Nein avrebbero potuto scrivere qualcosa di ancor più fondamentale dopo il già fondamentale Ep d’esordio, ma ecco la scomparsa tragica di Dario Parisini a chiudere anche quella pagina irrequieta, temo. C’è però ancora Mercy a rappresentare da tre decenni abbondanti una voce poco pacificata e urticante. Anche se forse di difficile intesa. Anche perché parla un italiano non impoverito ed evoca riferimenti di una Cultura che a breve verrà persino estromessa dalle scuole per far posto ad analfabetismo intellettuale informatizzato, finanza ed altre oscenità. Bella incombenza, per il musicista genovese. Si corre come al solito il rischio di essere fraintesi. O, peggio ancora, di essere intesi benissimo. Sarebbe una bella incombenza, per Mercy. Ma magari non questa volta, che si celebra la seconda vita di un disco mai nato, un fantasma di venti e passa anni fa, rimaterializzatosi oggi. T.R.E.S. non parrebbe l’occasione giusta per occuparsi del presente. Eppure sorprende anche in questo, con una suite, Cerchio Gaia 666, brano più lungo e vero cuore tenebroso dell’album. Brano che riprende con orgoglio la cadenza di The Shameless degli arcadici Zess, nel suo nucleo, tra vari sviluppi progressivi, ma che nelle liriche è molto più diretto ed attuale di quanto ci si aspetti.
Più forti sono le leggi di Mercato che l’istinto di conservazione
Trionfa questo nuovo irrazionale
Figlio spurio della Rivoluzione (digitale)
Chiarissima l’intenzione, quindi, di un brano duro, disperato ed avventuroso, eppure lucido e non del tutto arreso. Certo non definitivamente imbelle, condotto anzi in marcia da trombe e fanfare. Come il Maciste Contro Tutti dei C.C.C.P. nel 1991 (“Soffocherai tra gli stilisti / Imprecherai tra i progressisti“, solo che ora agli stilisti si sono aggiunti gli armocromisti). Stessa lotta impari, stessa lucidità visionaria, simile consapevolezza del presente scevra, degli entusiasmi comunemente indotti.
La conflittualità di questa ultima incarnazione dei Malombra è comunque attenuata poi dai momenti di splendido e decadente cantautorato prog. Mercy non fa mistero del suo amore per la scrittura di Peter Hammill (oltre che di altri cupi cantori come Scott Walker) e in T.R.E.S. potete trovarne riscontro. Nella elegante Allucinazione Ipnagogica, riflessione schietta su vita e suicidio, senza patetismo, che pare facile ritenere una risposta ancora ai C.C.C.P., ma stavolta quelli di Morire. Nella fantastica Fantasmagoria 1914, emozionante davvero nel ritornello e nella conseguente fuga strumentale, celebrazione di una generazione vivida mandata al macello nelle trincee. Infine, per davvero, nella mestizia romantica e folk de La Sola Immanenza.
Ho finito per citare tutti e sette i brani di questo disco, quasi una di quelle recensioni in cui si passano in rassegna i singoli brani perché non si riesce a farne un discorso di insieme. Non me ne vogliate, è solo che ognuno di questi sette meritava di essere per lo meno menzionato. Anzi, ci sarebbe stato da scrivere forse il doppio. Col rischio di annoiare, perché mettere in parola le emozioni che un disco sa offrire, in casi come questo, è sicuramente più difficile che consigliare a tutti di ascoltarlo. E non una volta sola. (Lorenzo Centini)



Preso oggi. Music day Roma, “Spinacity”. Così eravamo soliti chiamare il quartiere. Noi che ci abbiamo (soprav)vissuto.
Tanti vinili (con cose molto interessanti), pochi cd (con cose banali). Pochi, pochissimi giovani. Tanti, tantissimi vecchi mascherati da diversamente giovani. Per fortuna a troneggiare su tutto c’era il banchetto della gloriosa Black Widow.
Gran disco. Bello anche l’ultimo de Il segno del Comando.
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