FOREFATHER – Last Of The Line (Seven Kingdoms)

Mettiamo da subito le cose in chiaro: se vi ritenete (o terze persone vi hanno affibiato tale titolo onorifico) fan, esperti o anche solo semplici simpatizzanti di qualsiasi genere che si avvicini alla definizione di epic e non avete mai sentito nominare, o peggio ancora non vi piacciono, i Forefather, allora potete tornare tranquillamente a giocare a Hero Quest.

Per gli ignari, i Forefather sono due fratelli che rispondono agli pseudonimi di Athelstan e Wulfstan che da un quindicennio portano avanti un discorso fatto di rigore storico, rivendicazioni nazionalistiche, revival pagani e randellate in faccia, distribuiti in egual misura. Il concetto di fondo -che per certi versi li avvicina al black metal più di quanto facessero gli screaming e i blast beats degli esordi, ora un po’ meno presenti- è che l’Inghilterra è stata invasa dai cristiani, i quali hanno spazzato via gli antichi culti locali rimpiazzandoli con la religione degli schiavi e così via discorrendo. Fortunatamente tematiche così ingenuamente banali procedono di pari passo con la narrazione appassionata e romanzata di battaglie epiche, sollazzando l’immaginario guerresco di chi è cresciuto fantasticando su termini come “onore” e “campo di battaglia”.

Un buon motivo per amare i Forefather è il loro essere liminali in ogni aspetto. Assimilano qualsiasi influenza musicale, culturale, financo estetica, in tutti i suoi eccessi senza mai fare quel passo in più, senza mai valcare definitivamente la soglia del ridicolo. Ecumenici. Lambiscono le idiozie più profonde del black metal ma ritraggono la mano prima che la nera fiamma li bruci, si gettano a capofitto nell’epic ma poi ne escono fuori quando tutto intorno a loro è già uno stridio di spade e lamenti, si acconciano da nerd ma non abbastanza da farteli immaginare a suonare shoegaze in francese.

Last of the Line esce a tre anni di distanza da Steadfast e, pur essendo probabilmente un filino inferiore rispetto al predecessore, rimane uno di quei classici dischi che magari tra qualche anno trascureremo all’interno della loro discografia, ma in un futuro ancor più remoto ci faranno ricordare che in una carriera priva di passi falsi, persino uno degli episodi meno riusciti spaccava culi a destra e a manca.

Non starò qui a tediarvi con lo stucchevole esercizio dell’elencazione dei pezzi belli e dei pezzi brutti, così come sorvolero sull’artwork (quello sì, vero punto debole del duo da tempo immemorabile) o sulla produzione (qua pare che il problema sia risolto) perché, chi non appartiene all’infamante categoria degli ignari di cui sopra, sa già di poter andare a colpo sicuro come sempre. Cinquantacinque minuti di puro metallo anglosassone da amare, incondizionatamente. (Matteo Ferri)

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