MELISSA AUF DER MAUR – Out Of Our Minds (Roadrunner)

Dopo una carriera come ‘gregario di lusso’ in alcune delle più grosse realtà dell’indie rock degli anni ’90, Melissa la rossa ha deciso di mettersi in proprio e dare sfogo alla sua personale visione artistica che personalità ingombranti quali Courtney Love e Billy Corgan avevano per forza di cose messo in secondo piano. Il primo omonimo album (2004) accoglieva suggestioni desertiche, la rossa damigella si inchinava a re Josh Homme e alla sua corte sperando di ottenerne benedizione, credibilità e tocco magico. L’intento era sincero (a tratti apprezzabile) ma l’album aveva l’indefinibile difetto di risultare troppo professionale e di mestiere. Liberatasi finalmente dalla necessità di dimostrare la sua appartenenza all’ambito hard rock, in questa seconda prova la cantante/bassista canadese riesce a dare sfogo alla propria creatività in maniera illimitata, a riprova di ciò credo sia sufficiente dire che “O.O.O.M.” è un concept album abbastanza incomprensibile con i vichinghi come protagonisti e, se questo non bastasse, il disco si accompagna/integra con altri supporti mediali quali un fumetto e un film (tutti fattori che giustificano la lunga gestazione del progetto). Nonostante la complessità dell’opera il risultato non risulta pomposo ma al contrario comunica una certa genuinità, pur essendo evidente lo sforzo di andare oltre la semplice raccolta di canzoni. Le soluzioni adottate prediligono la forma d’insieme (la gestalt), anche a discapito della figura del performer detentore del marchio (vedi i vari strumentali). Fin dall’introduttiva “The Hunt” si comprende che al fuzz ‘da parata’ si sono preferite atmosfere oniriche; una componente femminile più marcata fa sì che l’espressione prenda il posto della mera esibizione. Ovviamente l’album è in continuità con quanto fatto in precedenza, gli occhieggiamenti stoner continuano ad esserci ma sono più mirati e meno ovvi (“The Key”, “Follow The Map”). “O.O.O.M.” interiorizza le proprie passioni e intenti invece di esteriorizzarle a puro scopo dimostrativo. Pur possedendo vari highlights (“Isis Speak” e la titletrack), l’album forse è un po’ troppo lungo, la sua prolissità però non è mai masturbatoria ma al contrario si sforza di essere un ascolto intelligente e non compiacente verso l’ascoltatore (quindi probabilmente destinato a salire con ascolti successivi). Citazione obbligatoria per il duetto con Glenn Danzig in “Father’S Grave”, ispirato e (appunto) tombale. Ah, quasi dimenticavo, lei è sempre bellissima. (Stefano Greco)

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