Non escludo il ritorno: PULP – More

Sul retro del booklet di This is Hardcore era riportata, al centro, una scritta particolarmente significativa che mi è venuta in mente ascoltando il primo disco dei Pulp dopo ventiquattro anni: “It’s ok to grow up – just as long as you don’t grow old, face it… you Are Young”. La “crescita”, il passaggio del tempo e delle varie fasi della vita è sempre stata al centro delle carriera degli inglesi, con tutti i turbamenti e gli scossoni conseguenti. Ed è un concetto che è stato elaborato sempre con un gusto e una classe che superavano di gran lunga i loro contemporanei, soprattutto perché i Pulp sono finiti per caso nel calderone “britpop” con cui avevano relativamente poco da spartire, essendo nati nel 1978, avendo pubblicato il loro debutto nel 1982 e avendo già esplorato sonorità diverse quando è iniziato ad arrivare il successo con His ‘n Hers. E questa “differenza” è dovuta anche alla penna di Jarvis Cocker, un paroliere mai troppo incensato che, spesso usando l’arma dell’ironia, è riuscito a riesce a descrivere una “quotidianità sentimentale ed emotiva” come pochi altri, in assoluto.

Ma ritorniamo al concetto di “crescita”, che torna in questo More, in cui i nostri si trovano a descrivere e a musicare una realtà in cui non solo sono “cresciuti”, ma in cui sicuramente non sono più giovani. E lo fanno elaborando la morte di Steve Mackey, riflettendo su quella che è stata la loro storia – ma senza retorica – e su un futuro di appiattimento culturale dominato dall’intelligenza artificiale. Concetti che vengono preponderantemente fuori sin dal primo singolo e dal primo video, perché tenendo fede alla loro tradizione, Spike Island è stato accompagnato da un primo, splendido, video in cui si gioca con le immagini del passato che prendono vita con l’IA per chiedersi, inconsciamente, se questo è il futuro che ci meritavamo. E musicalmente esce fuori una mina pazzesca, che partendo da un ricordo del passato, della partecipazione ad un festival con gli Stone Roses, diventa una vera e propria rivendicazione di un ruolo nella scena musicale: I was born to perform, It’s a calling / I exist to do this, shouting and pointing.

E sapete che c’è? Cocker ha tutte le ragioni del mondo per rivendicare il suo “ruolo”, perché More è molto più di quanto era lecito aspettarsi da un ritorno dopo uno iato cosí prolungato: è semplicemente uno dei migliori album in assoluto dei Nostri, subito dopo Different Classes, insieme a This is Hardcore (o a His ‘n Hers a seconda dei gusti). Una summa di tutto quello che la band ha attraversato nel corso degli anni che, come se niente fosse, per molti aspetti riparte proprio dagli archi di We Love Life, prodotto da Scott Walker, con risultati di gran lunga maggiori del buon disco del 2001, ampliando le sonorità che ne compongono i diversi tasselli. E mi trovo in grande difficoltà a parlarne, perché è un disco che mi ha sorpreso talmente tanto che non riesco praticamente ad ascoltare altro e, davvero, starei qui le ore a descrivere ogni pezzo e i testi cla-mo-ro-si di Cocker.

Seriamente, prendete Tina, midtempo scottwalkeriano con archi in primo piano, ritratto di una relazione sentimentale perfetta, perché i due protagonisti non si sono mai incontrati (Tina’s always attentive to my needs / We’re really good together ‘cause we’ve never meet), o la ritmata Grown Ups che non avrebbe sfigurato su Different Classes e che rappresenta il cuore pulsante dell’album. Un racconto di quanto si sogni, da piccoli, di “diventare grandi”, tra speranze, sogni e pulsioni sessuali crescenti (da sempre un tema ricorrente nella discografia degli inglesi), per poi scontrarsi con le diverse tappe che ci regala la vita. Oppure quel dittico meraviglioso puntellato da archi di Slow Jam e Farmers Market, tra i migliori brani dei Nostri, con un’atmosfera sognante che si confà ad un testo che parla dei sogni che, inconsapevolmente, a volte diventano le basi delle nostre vite, ma che ci allontanano dal momento in cui è arrivato il tempo di iniziare a vivere.

Non c’è un momento di stanca, non ispirato, o non necessario in questo album, dalla funkeggiante My Sex, intrisa di ironia e consapevolezza (But Hurry ‘cause my sex is running out of time), alla disco di Got to Have Love, fino alla splendida ballad anni ‘60 Partial Eclipse.

E poi ci sono due momenti in cui, davvero, si fa la differenza e in cui ci si deve fermare ad ascoltare con attenzione stupiti dalla meraviglia. Il primo – invertendo l’ordine – è il finale di A Sunset arricchito dalla presenza dei cori della famiglia Eno, Brian compreso, che si ricollega all’alba che chiudeva il precedente album di ventiquattro anni fa, e che con maestria dipinge la tendenza attraverso cui si può monetizzare la quotidianità, come quella di un tramonto. Il secondo, si chiama Background Noise, ed è una delle canzoni più commoventi e struggenti ascoltate negli ultimi anni, percorsa da un sottofondo con archi quasi à-la John Cale che sfociano in un ritornello di una carica emotiva che lascia, semplicemente, senza parole: How could I know? Love turns into background noise / Like this ringing in my ears/ Like the buzzing of a fridge /You only notice when it disappears.

E fosse anche solo per questi momenti, ma davvero non sono i soli, More meriterebbe non solo di essere annoverato tra i migliori album dei Pulp, ma tra i migliori dischi da “reunion” in assoluto, insieme a pochissimi altri.

Niente da dire, nessun appunto, solo applausi. (L’Azzeccagarbugli)

One last sunset, one final blaze of glory

And I know it’s all about the journey

Not the final destination, but what if you get travel sick

Before you’ve even left the station?

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