Love and Mercy: in ricordo di Brian Wilson

Wouldn’t it be nice if we were older?
Then we wouldn’t have to wait so long

La prima volta che mi sono commosso per una canzone è stato merito di Brian Wilson.

Non mi era successo, in precedenza, per canzoni più sentimentali, o struggenti, e quando è accaduto – penso di aver avuto all’incirca undici o dodici anni – non ero neanche in grado di comprenderne il testo, o quantomeno non del tutto. Per non parlare della canzone nella sua complessità, ascoltata, tra l’altro, a tradimento su una di quelle compilation di bassa lega che trovavi in edicola, d’estate, in stile “I MITI DEL ROCK”. Eppure ricordo benissimo che quando partì God Only Knows rimasi travolto dalla sua totalità, dal suo inglobare mille cose diverse, che non capivo, un universo di suoni, strumenti e generi condensati in meno di tre minuti.Non so neanche perché – o meglio, non lo sapevo all’epoca – ma mi ritrovai con gli occhi lucidi, in silenzio, nella mia stanza. Perché avevo appena ascoltato il più grande brano pop di tutti i tempi – con buona pace di altri giganti – la pocket symphony perfetta, quell’inno che, con una semplicità e un candore indescrivibili, comunica amore (pur partendo dall’ossimoro “potrei non amarti per sempre“), vita e perdita in una sorta di preghiera laica, capace di arrivare davvero oltre il tempo e lo spazio.

Quella canzone dei Beach Boys era stata scritta da Brian Wilson, e da quel momento ho iniziato ad approfondire gli album degli americani, partendo proprio da quel Pet Sounds che resta lì, nell’iperuranio dei dischi perfetti e irraggiungibili, per poi a scoprire la storia che stava dietro a quelle canzoni e, in particolare, a Brian. Una storia che ormai conoscono tutti: una band che nasce “in famiglia”, con Brian e i suoi fratelli Carl e Dennis Wilson (e in questa sede non posso che raccomandare l’ascolto di Pacific Ocean Blueunico, splendido, disco solista dello sfortunato batterista), il cugino Mike Love e il compagno di classe Al Jardine, sotto l’egida del padre/padrone manager Murry Wilson. Il successo, il contrasto con Murry, l’estro di Brian che prende il sopravvento, la “rivalità” con i Beatles, Brian che inizia a stancarsi dell’estetica californiana e di brani troppo “semplici” (si fa per dire, riascoltate bene una California Girls e poi ne riparliamo), l’uscita di Pet Sounds che preoccupa la band e la casa discografica e, nel mentre, alcune delle composizioni migliori che siano mai incise su disco.

Ma non starò qui a ricordare la storia dei Beach Boys e del suo tormentato leader, perché sarebbe davvero inutile, dato che lo stanno facendo tutti e in passato lo hanno fatto in tanti meglio di me (in assoluto, più di qualunque libro, consiglio la monografia di Alessio “Swans” Brunialti su un Mucchio Extra di tanti anni fa, che mi dà ancora i brividi e che ho letto e riletto mille volte). Quindi preferisco rimanere sul personale, ricordando alcuni momenti per me importanti o che mi hanno lasciato qualcosa, che ricollego a Brian Wilson e alla sua musica.

Ad esempio quando ho ascoltato la sua versione di Smile, il disco impossibile, quello che aveva definitivamente compromesso il suo equilibrio mentale. Perché Wilson era un perfezionista e quella che doveva essere la sua teenage symphony to God doveva essere perfetta, doveva superare qualunque cosa mai composta prima da qualsiasi persona, ed era diventata qualcosa di talmente totalizzante che… beh, la storia è nota. Tra arrangiamenti sempre più arditi, una collaborazione con Van Dyke Parks invisa a Mike Love, l’abuso di LSD e una musica che diventava viva nella sua mente, Brian ha perso il senno (semplificando) e si è chiuso nel suo mondo. E l’album non è mai uscito: certo, alcuni estratti sono stati pubblicati a spizzichi e bocconi nei successivi album dei Beach Boys (Heroes and Villains, Surf’s Up, etc), ma, seppur fossero gemme di incommensurabile valore, non restituivano quella visione d’insieme che si era persa nei meandri della sua mente, preda di approfittatori che hanno reso Wilson ostaggio di sé stesso per decenni.

Fino a quando, tra il 2003 e il 2004 (come testimoniato dall’omonimo documentario), Brian, Van Dyke Parks e la band che accompagnava Wilson in quegli anni hanno suonato dal vivo lo Smile di Brian Wilson e lo hanno anche registrato (Brian Wilson Presents Smile). E ricordo con viva emozione la prima volta che ho sentito quell’atto di amore verso un progetto impossibile pubblicato, con una veste diversa, dopo trentasette anni. E ricordo anche l’eccitazione quando fu ufficialmente annunciato che, dopo anni di bootleg, sarebbero uscite le Smile Sessions nel 2011, ossia le registrazioni effettuate tra il 1966 e il 1967 che Brian Wilson non aveva mai voluto pubblicare ufficialmente; ricordo l’emozione provata nell’ascoltare quel “lavoro in fieri, ma definitivo” – che anche in questa versione resta tra le cose migliori che siano mai state pubblicate – e nello scartare l’enorme cofanetto che per anni ho tenuto in un posto d’onore, all’ingresso di casa.

Ma tanti sono i ricordi che ricollego a Wilson e alla sua musica. La lettura dei post di Mauro sul Forum del Mucchio, in particolare su quella piccola gemma del 1970 chiamata Sunflower, o l’avatar di Lucia, le discussioni futili e sterili sul paragone Beatles/Beach Boys che puoi fare, oziosamente, solo quando non hai nulla da fare. E ricordo benissimo il colpo a cuore – uno dei tanti – avuto durante la visione del finale della terza stagione di Lost, Through the Looking Glass, quando Charlie deve inserire il codice per far ripartire le telecomunicazione e quel codice sono le note di Good Vibrations, che conosce a memoria, come è giusto che sia per un musicista. E sempre in ambito televisivo, avendo superato la quarantina, ricordo la splendida cover di In My Room dei Grant Lee Buffalo, nella puntata della seconda stagione di Friends, The One with the List. Una canzone (che Wilson ha scritto in un’ora, a ventun anni) che riprendeva un certo doo-wop anni ’50 e diventava un’ode ad un certo struggimento interiore, che ha travalicato le generazioni. O, spostando l’attenzione sul cinema, quel momento meraviglioso in cui viene condensata la storia del protagonista in Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, sulle note di Heroes and Villains.

Restando in ambito cinematografico, ricordo la visione casalinga di Love & Mercy, film tanto imperfetto quanto toccante sulla vita di Wilson con tante lacrime in più punti del film, soprattutto quando Brian, ostaggio del suo terapeuta, riesce a fuggire con quella che sarebbe diventata sua moglie. Così come ricordo la commozione palpabile di tutti gli spettatori nel 2017, quando Wilson ha suonato all’Umbria Jazz a Perugia, presentandosi con tutta la sua fragilità. Tutti sapevamo che, ormai, sul palco suonava poco e niente, che spesso era spaesato e che la voce cedeva in più punti, ma non interessava a nessuno; e se penso a quando ho ascoltato Wouldn’t It Be Nice dal vivo (insieme a tutto Pet Sounds), uno dei brani più importanti della storia, con una band perfetta, mi viene ancora la pelle d’oca. E ricordo che, quando sui bis siamo andati tutti sotto al palco, Brian, letteralmente spaventato, per un secondo, ha cercato lo sguardo dell’amico di una vita Al Jardine, che lo ha tranquillizzato e, progressivamente, ha ricominciato a cantare sulle note di Barbara Ann, Surfin’ U.S.A. e Fun, Fun, Fun, chiudendo con Love and MercyBrano tanto semplice quanto intenso, che era diventato una sorta di “credo” per lui. E in quel momento non c’era nessun occhio asciutto in mezzo al pubblico.

Oggi il Mozart del pop non c’è più, e anche se negli ultimissimi anni era sempre più assente – come dimostrato dall’amministrazione di sostegno che si era resa necessaria per tutelare i suoi interessi – è brutto sapere di non essere più sullo stesso pianeta abitato da Brian Wilson. E ci sarebbero tante cose che vorrei dire, ma non è questa la sede; e voglio chiudere questo sgangherato ricordo personale con la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto della scomparsa di Brian Wilson. Non mi sono venuti in mente i suoi capolavori, o le sue canzoni più note, ma That Lucky Old Sun, disco di Wilson del 2007, che si chiude con Southern California. Un brano, come tutto il disco del resto, estremamente nostalgico, che si apre con un verso che, visto il contesto, mi sento di dedicare a Brian Wilson, quasi come un augurio per il suo ultimo viaggio: I had this dream / Singing with my brothers / In harmony, supporting each other / Tail winds, wheels spin, down the pacific coast / Surfin on the A.M., heard those voices again.

Grazie di tutto: Love and Mercy. (L’Azzeccagarbugli)

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