CULT OF FIRE – The One, Who is Made of Smoke. E infatti è (quasi) tutto fumo
Ah, i Cult of Fire. Un nome che, almeno sino al 2013, evocava fiamme, devastazione, epiche cavalcate attraverso lande desolate. E invece, nel 2025, ci ritroviamo con The One Who is Made of Smoke, un disco che sembra la playlist perfetta per un manuale di yoga scritto da un fan dei Watain e venduto su AliExpress. Non fraintendetemi: idee ce ne sono, e anche in abbondanza. C’è del black metal bello tirato, c’è tribalismo esotico, c’è melodia, c’è persino qualche tentativo di heavy metal classico. C’è praticamente tutto quello che si può buttare in un calderone. Peccato che l’effetto finale sia più da centrifuga impazzita che da alchimia oscura. Volevi orchestrare un’epica emozionale, alternando momenti di aggressione nera a parentesi sognanti – ma il risultato è un mosaico scomposto dove il pathos è continuamente sabotato da cambi troppo bruschi o semplicemente goffi.
Prendiamo Mourning, ad esempio: parte come un pezzo degno di qualche band classica metal rispolverata da un festival di provincia, poi ti pianta lì delle urla blackened che sembrano capitate per sbaglio durante le prove di un’altra band. O Dhoom, che introduce percussioni tribali (belle eh, per carità), salvo poi annegare tutto in riffoni e blast beat tirati fuori senza troppa coerenza.
E il sound? Beh, diciamo che il black metal qui è contaminato da una certa tendenza shoegaze: muri di suono, melodie eteree, atmosfere ovattate. Bello, bello. Il tutto però nella versione venduta in un noto sito di e-commerce cinese, quella che costa poco, arriva tardi e a volte si scuce ai primi… Ascolti. Se cercate l’intensità ascetica dei Deathspell Omega o l’esoterismo raffinato dei Mgła, questo album rischia di sembrarvi un po’ troppo patinato, un po’ troppo “deluxe edition” di sé stesso.
Alla fine The One Who is Made of Smoke non è un brutto disco: in alcuni momenti (Anger o Blessing) si intravede il potenziale di una band che sa costruire climax emotivi intensi, come già avevano dimostrato in Triumvirat (2012) e मृत्यु का तापसी अनुध्यान (2013). Ma il problema è la coerenza. Dopo quei due dischi, promettentissimi, solo uscite assolutamente fuori fase, fuori tono e fuori forma. Questo nuovo album, a ben pensarci, sintetizza un decennio di vita in poco più di 30 minuti di musica: il tutto sembra più una collezione di “idee carine” mal cucite assieme, piuttosto che un vero disco. Sembra, per meglio dire, un disco di black metal epico ma visto attraverso l’effetto Instagram “Dreamy Glow”. O, se preferite, un Exercises in Futility dei Mgła, comprato al marcà domenicale. Quello online, Gen Z. (Bartolo da Sassoferrato).



La “nostra musica” somiglia sempre più ad un circo: maschere, travestimenti, tatuaggi…presto rivaluteremo “nu jeans e ‘na maglietta” del grande Nino D’Angelo
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Alla fine, se scrivi e suoni roba buona, per me puoi vestirti pure con le magliette di hello kitty.
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