La pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno #2: SOLBRUD

È possibile che i più attenti tra di voi abbiano notato che nella mia top ten di fine 2024 figura un disco che non ho recensito quando uscì, il 2 febbraio dell’anno scorso. È quello dei Solbrud, e ovviamente c’è un motivo: è un disco estremamente complesso, un concept scritto a otto mani – con ognuno dei quattro componenti del gruppo che si occupa di una singola parte – incentrato sulle quattro stagioni; ne consegue che l’opera assume dimensioni importanti, si tratta di un doppio vinile (o CD) della durata complessiva di 94 minuti. Ciò dovuto anche al fatto che ai ragazzi danesi è sempre piaciuto molto scrivere brani lunghi o lunghissimi, essendo provvisti di una creatività strabordante e di doti strumentistiche non trascurabili. Questo li porta ad intricare considerevolmente le loro composizioni che risultano essere, in definitiva, non di presa facile o immediata.

Non esito ad ammettere che in principio non sapevo cosa scrivere di IIII, proprio per via dell’estrema complessità insita nelle sue trame; per apprezzarlo quanto merita sono stati necessari molto tempo e molti ascolti, e nel frattempo il tempo è passato, le uscite si sono accumulate e il progetto di recensire l’ultimo Solbrud è passato in cavalleria.

Rimedio oggi in questo speciale a loro dedicato, oggi che già il gruppo non esiste più: infatti poco tempo dopo aver pubblicato il loro lavoro più ambizioso in carriera hanno annunciato lo scioglimento. Ufficialmente per mancanza di energia e di motivazioni sufficientemente forti per portare ancora avanti il progetto; più probabilmente perché, avendo già avuto il problema di sostituire il loro screamer storico Ole Pedersen (anche negli Afsky), venuti a sapere che il nuovo cantante appena integrato nella band si era organizzato un suo progetto personale, al pensiero di dover di nuovo cercarsi qualcuno di adatto da capo è venuto meno l’entusiasmo, e sinceramente un po’ li capisco.

Così, la carriera della band si è esaurita in circa 15 anni di vita, concludendosi con il loro disco più impegnativo. Più progressivo che mai, più ibridato con delicate e soffuse sfumature post-black prevalentemente acustiche il loro black metal col tempo è diventato qualcosa di unico; sempre intriso di melodie interessanti e potentissime, spesso comunque lanciato a velocità considerevoli, nonostante l’estrema lunghezza è una proposta musicale che non annoia mai, cosa quasi prodigiosa. IIII contiene autentiche perle: Hvile – che apre il disco – è una suite da 17 minuti e mezzo che muta in continuazione come il meteo di una giornata di primavera nel profondo Nord; la mini-sinfonia Når Solen Brydes – suddivisa in 4 movimenti ed occupante l’intera facciata B del primo vinile – sfiora i 24 minuti, è il loro pezzo più arduo e tormentato di sempre e non ci sono parole adeguate per descriverne in modo esauriente la struttura e quanto sia effettivamente emozionante. In altre due occasioni viene sfondata la barriera dei 10 minuti senza che affiori la benché minima stanchezza, o che le composizioni diventino stantie o prolisse. Ci sono invero anche brani di minutaggio più contenuto sapientemente alternate ai più lunghi, cosa che snellisce e rende ancora più piacevole l’intera opera.

Come già anticipato in precedenza, ai Solbrud è sempre stato caro scrivere composizioni elaborate, lunghe e sofferenti. Le ritroviamo nel loro passato tali e quali, come nel loro terzo album Vemod, uscito nel 2017 e in certo senso progenitore di quanto avremmo poi potuto ascoltare sette anni dopo. Il disco contiene quattro brani e dura 50 minuti abbondanti, l’apice è la lunghissima Mennenskeværk che sfiora i 17, solo Besat af Mørke non arriva ai 10. Nuovamente i brani non sono “immediati”, l’influenza del progressive metal diventa palese e la commistione tra di esso ed un certo stile di black metal già di suo contorto, ispirato dal naturalismo paesaggistico come fonte inesauribile di soluzioni creative, raggiunge apici artistici sorprendenti; se volete la sorpresa è anche dovuta al fatto che la Danimarca è sempre stata poco considerata per ciò che concerne la musica heavy metal, e questa sottovalutazione aprioristica non ha giovato di certo a portare entusiasmo a strumentisti che indubbiamente avrebbero meritato maggior considerazione. Vemod era altresì un’evoluzione del precedente Jærtegn, uscito nel 2014, già in grado di denotare una certa originalità nella proposta musicale, in cui l’uso di intermezzi acustico/bucolici diventa diffuso. I brani sono nuovamente 4, tre dei quali sopra i dieci minuti anche abbondantemente, ma comunque meno progressivi e più cannoneggianti; pur agendo nel contesto del black atmosferico sono fondamentalmente più veloci rispetto a quanto proposto negli anni successivi. È corretto dire che ci sono significative sfumature tipiche degli Wolves in the Thrones Room, ma non lo sarebbe se interpretassimo questo presupposto come se i Solbrud si limitassero a scimmiottarli in modo insensato senza preoccuparsene più di tanto. Ci sono diversi spunti di originalità negli arrangiamenti delle chitarre, così come in quelli di batteria e della sezione ritmica in toto, intricati ed inusuali e melodie che arrivano a ricordare Bergtatt degli Ulver, qui proposte in versione più tesa ed estrema.

Il loro disco più total black è senza dubbio il debutto omonimo, pubblicato nel 2012 per una piccola etichetta loro conterranea – Euphonious records – e successivamente ristampato da Vendetta records, che è stata la loro casa discografica patrocinatrice per tutto il restante tempo della loro esistenza. Poco considerato ai tempi della sua prima comparizione, il disco contiene i canonici 4 brani anche in questo caso di minutaggio importante (Dødemandsbjerget la più breve sui 7 minuti e mezzo, Skyggeriget al contrario arriva al quarto d’ora) e propone un black metal atmosferico piuttosto aggressivo che ha come punto di riferimento il riffing dei primi Emperor senza ausilio di tastiere, oltre ai già menzionati WITTR. Sono già presenti intrecci di chitarra stravaganti ed inusuali oltre ad un gusto sontuoso nel proporre melodie lontane dalla banalità e dalla stucchevolezza. Certo, la loro proposta musicale allora era in fase embrionale e solo successivamente avrebbe intrapreso un percorso evolutivo capace di sfociare in un’opera mastodontica come IIII, tuttavia erano già evidenti le capacità e le possibilità artistiche. La sensazione è che, se non fossero intervenuti problemi di formazione e scazzi assortiti, avremmo sentito parlare ancora a lungo della band dei fratelli Pedersen (basso e batteria) e del chitarrista Adrien Dietz, insieme dai primi passi fino al prematuro epilogo. E chissà dove sarebbero potuti arrivare, e cosa ci siamo persi.

Trovate tutta la loro produzione – compreso un album dal vivo – sul loro spazio Bandcamp e mi auguro che la cerchiate in molti. Si meritano ogni gloria, anche se postuma. (Griffar)

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