THE GREAT OLD ONES – Kadath

Sono almeno due i meriti dei transalpini The Great Old Ones: il primo, e più evidente, è che sono genuinamente ossessionati dalle storie di Lovecraft, come dovrebbero esserlo tutte le persone dabbene. Il secondo, altrettanto importante, è che hanno uno stile veramente unico, che hanno sempre mantenuto fin dagli esordi di Al Azif (2012), in cui sentivamo un black metal melodico ma oscuro, per arrivare agli album più recenti, dove la loro musica è fatta di composizioni sempre più articolate e narrative. Il culmine di questa ricerca è l’appena uscito Kadath. Lo avevo anticipato nella rubrica di fine anno, dove dicevo che era bello, ma azzardavo a dire che avrebbero dovuto osare di più: ecco, forse ero ancora ubriaco dal Natale appena trascorso, perché non avevo capito un cazzo. Prima di addentrarci nel lavoro vero e proprio, ricordiamo che la formazione attuale è Benjamin Guerry, che abbiamo recentemente intervistato, alla chitarra e voce; Aurélien Edouard e Alexandre Rouleau alle chitarre; Gregory Vouillat al basso e Julian Deana alla batteria. Il fatto è che i The Great Old Ones sono diventati molto rapidamente uno di quei rari esempi di chi riesce far musica originale e personale, pur restando all’interno di un discorso fatto esclusivamente di metal, senza bisogno di ricorrere a stravaganze né a tecnicismi di alcun tipo.

Kadath è un’ora abbondante di musica continua, piena e totalmente godibile: l’album è estremamente facile da apprezzare e riesce a mantenere alta l’attenzione per tutta la sua durata. Per goderlo in pieno e per coglierne tutte le sfumature bisogna riascoltarlo almeno qualche volta e, una volta colto il messaggio, si capisce che è esattamente come una colonna sonora moderna per The Dream-Quest of Unknown Kadath (1927) dovrebbe suonare. La storia, per chi la conosce, è fatta di vari registri che comprendono, ovviamente, horror, ma anche avventura, fantasy e grottesco. Il tema principale del racconto è la ricerca, la quest di Randolph Carter, il cui scopo finale è vedere gli dèi che abitano sul monte Kadath e quindi viaggia attraverso paesaggi alieni e sconfinati, a volte paurosi, ma anche grandiosi ed emozionanti. Ascoltando Kadath dei The Great Old Ones si coglie proprio questa impressione di meraviglioso e di ineffabile, tradotta in musica mediante l’uso di uno stile molto variegato, che ha la propria origine in un black melodico, ma che si dilata molto, arrivando alle narrazioni estese tipiche del progressive e del doom, con anche una decisa componente epica e non mancano alcuni passaggi genuinamente thrash. Massimo esempio di questa capacità impressionistica dei The Great Old Ones è la strumentale Leng, che si trova verso la fine e che con le sue atmosfere drammatiche e malinconiche, ci fa sentire proprio in viaggio attraverso paesaggi che avvertiamo susseguirsi e sfumare l’uno nell’altro.

In questa ricchezza di stili non mancano nemmeno l’impatto e la violenza sonora, che sono sempre ben incorporati nel tessuto musicale del gruppo ed emergono proprio quando la narrazione lo richiede: notevoli in questo senso l’opener Me, the Dreamer, Those from Ulthar, Under the Sign of Koth e anche l’ultima Astral Void (End of the Dream), ma a dire il vero tutte le canzoni si compenetrano e si completano le une nelle altre a formare un’opera unica e stratificata, ricca di tante sfumature. Kadath è uno di quei dischi per cui vale la pena prendersi un po’ di tempo e va ascoltato dall’inizio alla fine, perché è talmente coinvolgente che, brano dopo brano, si vuole sentire come vada a finire, proprio come quando si legge un buon racconto o quando si guarda un bel film. A questo grande coinvolgimento sonoro concorre anche l’ottima produzione curata da Francis Caste allo Studio Sainte-Marthe di Parigi, con cui il gruppo aveva già lavorato per il precedente Cosmicism (2019). Molto bella e originale anche la copertina di Kadath, ad opera dell’artista polacco Jakub Rebelka, già illustratore e autore di graphic novels. Siamo di fronte a un grande album, curato in ogni dettaglio e di grande spessore artistico, che conferma i The Great Old Ones come una delle realtà più interessanti e visionarie della scena metal contemporanea. (Stefano Mazza)

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