La finestra sul porcile: A COMPLETE UNKNOWN, la storia di Bob Dylan

Atteso con enormi aspettative e altrettanti pregiudizi – sia sulla rilettura hollywoodiana di una figura tanto nota quanto schiva sia sull’incarnazione di Dylan da parte della star del momento – arriva finalmente nelle nostre sale A Complete Unknown, film sui primi anni di carriera di Bob Dylan, dal suo arrivo a New York alla contestata svolta elettrica del 1965. Un film che aveva l’arduo obiettivo di accontentare tanto il giovane neofita, che si approccia per la prima volta alla materia dylaniana, quanto il fan ossessionato, pronto a stizzirsi di fronte alla minima incongruenza, e che soprattutto doveva essere un prodotto avvincente e non banale in un contesto, quello del biopic, che tende all’indulgenza e alla standardizzazione. E James Mangold – che prima o poi si dovrebbe finalmente considerare un autore a tutti gli effetti, nonostante il pessimo Indiana Jones riesce incredibilmente a centrare tutti gli obiettivi e a girare (e in parte scrivere) un film classico, ma non banale, intenso ed emozionante. E lo fa non solo perché attinge a un testo, Dylan Goes Electric di Elijah Wald, considerato tra i migliori saggi dylaniani in assoluto, ma perché parte da alcuni presupposti fondamentali: 1) Di un autore di cui si conoscono vita, morte e (svariati) miracoli, in un contesto come quello di un biopic è impossibile dire qualcosa di “nuovo” e quindi è necessario mettere al centro la musica. E qui ce ne è tantissima, filmata divinamente e che arriva al cuore; 2) L’arrivo a New York di Dylan per trovare in ospedale il mentore mai conosciuto Woody Guthrie coincide con un momento di enorme cambiamento sociale, politico, culturale e musicale, che non può rimanere sullo sfondo ma non può nemmeno essere “spiegato” a chi non lo conosce. Così Mangold, saggiamente, inserisce costantemente riferimenti storici e sociali, mette in primo piano figure rilevanti per la narrazione come Woody Guthrie, o Pete Seeger, senza scivolare nella tendenza hollywoodiana contemporanea di dover a tutti i costi spiegare e illustrare il “chi” e il “cosa”; 3) Mangold capisce la regola aurea quando si parla del cantautore di Duluth (che vale anche per il Dottore, ma quella è un’altra storia): Dylan mente, ha sempre fatto della sua ambiguità e delle sue maschere la sua cifra personale e artistica, non è un narratore “affidabile” e questo consente di rivisitare fatti e avvenimenti, così come di tracciare un ritratto spigoloso dell’artista, evitando l’agiografia e, forse, inquadrando il più possibile la sua essenza. Sulla scorta di questi presupposti, A Complete Unknown, nella sua classicità formale che ha sempre accompagnato un regista come Mangold, riesce a colpire molto più di altre opere del genere, anche più del riuscitissimo I Walk the Line, sempre da lui diretto, sulla vita di Johnny Cash (che, tra l’altro, “ricompare” anche in questo film – sfiorando la vertigine artistica in un paio di inquadrature – in un momento cruciale della vita di Dylan). E riesce a fare questo per la più semplice e meno celebrata delle ragioni: perché riesce a costruire una storia appassionante, vitale e intensa sia per chi non conosce nulla della storia di Dylan sia per chi è capace di anticipare ogni avvenimento che vedremo sullo schermo, restituendo in modo tangibile l’atmosfera dell’epoca. E ci riesce proprio per la centralità che la musica e la sua capacità comunicativa ha in questo film, in cui Timothée Chalamet è praticamente sempre con una chitarra o una penna in mano, in una simbiosi mostruosa con Dylan (e con Zimmerman, che viene fuori a tratti, in alcuni momenti) e con una performance attoriale e vocale da applausi a scena aperta. Soprattutto perché non si riduce ad una scialba interpretazione da imitatore (come avviene nel per me osceno Bohemian Rhapsody) ma in una perfetta mimesi, anche psicologica, delle mille sfaccettature e nevrosi del personaggio e del mito. Performance che dovrebbe, tra l’altro, mettere a tacere chi odia il successo di un talentuoso attore, che già da giovanissimo, almeno dal “nostro” Call me by your Name, aveva dimostrato di avere capacità decisamente sopra la media. Così come ben sopra la media è la prova di tutto il cast, a partire da una Elle Fanning toccante e convincente nel ruolo di Sylvie Russo/Suze Rotolo (unico diktat venuto da “sua bobbità”, che non ha voluto che si utilizzasse il vero none della sua giovane amata) o di un’ottima Monica Barbaro nel ruolo di una (forse troppo) spigolosa Joan Baez. Ma a rubare la scena a tutti è un sublime Edward Norton che incarna fisicamente e spiritualmente tutto ciò che è stato Pete Seeger: figura quasi paterna per Dylan al suo arrivo a New York, al contempo bussola morale di un movimento e, contestualmente, l’unico abbastanza intelligente da comprendere l’impatto che quel ragazzino stava per avere sul mondo intero. E quando capisce che ormai quel “faro” per le generazioni future sta cambiando strada e cerca di far capire il ruolo che tutti hanno all’interno del movimento, Albert Grossman (l’ottimo Dan Fogler) gli risponde che lui sta vendendo candele, mentre Dylan lampadine. Intorno a questi personaggi e a questo contesto Mangold e Jay Cocks cercano di ricostruire anche una storia personale legata al cantautore, inserendo elementi di finzione – pochi, ma perfettamente funzionali – coerenti con l’impossibilità di ricostruire in modo veritiero la personalità di un narratore che ha sempre mentito e che, anche alla fine del film, resta “un perfetto sconosciuto”. Perché, come Sylvie/Suze gli fa notare nel contesto di un’accorata lite, anche dopo una stretta frequentazione lei non sa niente di lui, di chi sia veramente. E questo è uno dei pregi principali del film, quello di non fare mai afferrare veramente la figura di Dylan, da persona che ambisce il successo e poi lo rifugge indisponendo volontariamente il suo pubblico, da innamorato a disinteressato, da cantore folk a chitarrista elettrico e così via. E in questo turbine di contraddizioni ed eventi che si susseguono sullo schermo, Mangold riesce anche ad emozionare, oltre che nei momenti più propriamente musicali, anche nelle parti più romanzate e quotidiane, come nella visione di un film, o nella bozza di Girl from the North Country suonata nel salotto dei Seeger a colazione, in uno struggente e cinematografico addio (o fare the well, se preferite), così come nella prima e nell’ultima visita a Woody Guthrie, figura su cui, circolarmente, si muove il film. E non fa niente, davvero, se sono presenti alcune forzature, se alcuni personaggi/passaggi restano troppo sullo sfondo, o se si giochi con alcune inesattezze storiche – volutamente – o si preconizzino eventi futuri: perché, nonostante le sue perdonabili imperfezioni e le rigidità del genere, Mangold riesce nel mezzo miracolo di condensare in 140 minuti la storia, un movimento, un’idea e un uomo. Senza forzare la mano, senza eccessi, ma con personalità in un contesto hollywoodiano dove quasi tutti falliscono. E non è davvero un’impresa da poco. E se a ciò si aggiunge che, dati alla mano, dopo l’uscita del film, oltre al grande successo della colonna sonora, molti giovani hanno voluto anche approcciarsi all'”originale”, la scommessa non può che dirsi assolutamente vinta. (L’Azzeccagarbugli)

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