Bene ma non benissimo: WHOREDOM RIFE – Den Vrede Makt
Quando si leggono in giro i commenti su una nuova uscita del duo norvegese Whoredom Rife i superlativi si sprecano: credo che l’aggettivo più moderato sia “eccezionale”, proprio quello più terra-terra, la base di partenza, quello che per qualunque altra band significherebbe “meh, sì, caruccio”. Ora, non voglio dire che molti di questi superlativi siano immeritati perché non sarebbe vero, ma una buona metà probabilmente sì.
Spiego il perché: il factotum polistrumentista V. Einride, aka Vyl, quando dieci anni fa ha fatto partire il progetto, aveva in mente una formula compositiva che in effetti ha funzionato subito ma che, nel corso del tempo, non è mai cambiata di una virgola; gli piace molto inserire arpeggi di chitarra più o meno distorta a seconda dell’arrangiamento (un po’ sullo stile dei primi Gehenna) solo che praticamente lo fa in ogni suo pezzo, il che rende la cosa piuttosto scontata. Talune volte, specie nei passaggi più dolci e atmosferici, quasi acustici anche se non mi sembra usi mai una sei corde non elettrica, una tastiera soffusa accentua delicatamente il tutto.
Prendiamo ad esempio l’omonima che apre il disco: arpeggino che funge da intro cui segue il riff A – sdoppiato in due tracce, la ritmica iperdistorta in sottofondo e un fraseggio penetrante su note molto alte, altra sua tipicità – portato avanti per un buon minuto; si passa al riff B che ha le stesse caratteristiche e passa un altro minuto, dopodiché lo schema riff A riff B viene ripetuto. Siamo già a quattro minuti quando la canzone sfuma in un arpeggio che fa da bridge per il susseguente riff C, che in pratica è l’A con qualche lieve variazione, sul quale il pezzo va a terminare. La cosa mi sta anche bene, perché così ti entra in testa, volente o nolente, ed essendo i riff piuttosto memorizzabili hai subito l’impressione di non aver sprecato i soldi acquistando l’album. Ma questo tirare in lungo i brani (nessuno al di sotto dei 7 minuti, il picco sono gli 11 e mezzo della conclusiva The Beautiful End of All) alla fine rende pesante l’ascolto del disco e non di rado mi sono sorpreso a distrarmi nel corso dei vari ascolti. Che è un difetto che nei Whoredom Rife io ho sempre riscontrato ed è probabilmente per questo che sì, li metto nel giradischi volentieri, ma col contagocce, perché non passa mai molto tempo prima che io ne abbia abbastanza.
Il brano più riuscito secondo me è Phantom Sword, che si basa come sempre su due-tre riff al massimo, con il portante che è quasi thrasheggiante in stile Urgehal e il subordinato che è un monocorda velocissimo che per stile a me ha ricordato molto quanto abbiamo potuto adorare in Slaughtersun (i Dawn, presente?) prima di concludersi con una coda di organo ed effetti. Merita menzione anche la successiva Ravenous, che in parte si discosta dallo schema compositivo classico e questa sì che è una sorpresa: più cadenzata e caratterizzata da melodie sovraincise di chitarra meno furenti del solito, più vicine ad un simil-assolo minimale di poche note che a un riff vero e proprio, tutto questo prima di rituffarsi nella furia più classica che allunga il pezzo ad esagerati 8 minuti e 40”.
Tirate le somme, Den Vrede Makt è un disco di buon livello, che contiene idee di assoluto rilievo affiancate da altre meno interessanti e che soffre un po’ di elefantiasi compositiva proprio come i suoi tre predecessori. I Whoredom Rife sono un gruppo assai valido ma non sono dei fenomeni che hanno rivoluzionato il black norvegese; hanno trovato una quadra che è piaciuta a molta gente e su quella ci hanno costruito una fortunata carriera, anche grazie all’assiduo supporto della cult-label Terratur Possession che ne ha curato tutte le uscite dagli albori ai giorni nostri, riservandogli confezioni spettacolari per accuratezza, specialmente per le versioni in vinile, pezzi da collezione il giorno stesso della loro uscita. Anche così si forma l’aura di culto della quale la band gode… Ripeto: non immeritatamente, ma sarebbe meglio non esagerare. (Griffar)


