Il teorema della pausa pranzo: TERRAVORE – Spiral of Downfall
La pausa pranzo è una cosa molto seria. Ormai sono vent’anni che stabilisco i criteri per farla in un bar, in una trattoria o altrove. E non stecco neanche una volta. Lasciate perdere il menù, o gli odori che vi giungono al naso non appena varcate la soglia di quegli esercizi di ristorazione: tutte puttanate. Volete sapere se si mangia bene? Contate i presenti piuttosto, e soprattutto fate caso a chi è seduto ai tavolini.
La presenza in loco di camionisti o muratori provenienti dall’Albania indicherà che in quella bettola si consumano delle fantastiche pause pranzo. Loro sì che sanno dove andare a mangiare, sono specialisti. Noi ci ostiniamo a sederci in autoproclamati bistrot che ti ricacciano al luogo di lavoro con cinquanta grammi di pastasciutta in pancia, o che ti allungano una cacata su un piatto rettangolare stondato di color pietra lavica. Guardate i loro tavolini: nessun camionista o operaio, niente manovalanza. Questi ultimi non passano le mattinate in ufficio su Instagram, lavorano duramente. E pertanto hanno fisiologico bisogno di mangiare, possibilmente tanto e bene, non di sentirsi al cinquanta percento coccolati e al restante presi per il culo. Io un po’ li capisco i seggiolari da ufficio, sistemata all’unghie e poi di corsa al bistrot: azzannassero un piatto buono e generoso ogni giorno della settimana, in breve tempo varcherebbero la soglia dei cento chili di peso corporeo e allora sì che sarebbero guai. La carbonara della godereccia manovalanza invece strabocca dal piatto, certamente non uno di quei cappelli del prete larghi un metro, con la conca da dieci centimetri al centro, in cui vi mettono una qualche puttanata tipo “spaghettini di kamut con zucchine e dragoncello”.
È più facile che io mi sbagli in musica che a tavola. Un esempio è quando ho fatto partire l’album ultimo dei bulgari Terravore con la certezza che non mi sarebbe piaciuto affatto. Un brutto nome, un logo anonimo e una copertina che, nonostante inneggiasse alla vecchia scuola, non riusciva a comunicarmi molto. Anche se nel 2024 non so più cosa personalmente pretendere da una copertina thrash metal: tutti ricopiano Ed Repka da decenni e oggigiorno un’ennesima copertina alla Ed Repka quasi mi induce la nausea. Meglio andare in direzione opposta, forse.
I Terravore hanno il riff thrash nel sangue alla maniera dei bravi americani, ma sono in tutto e per tutto influenzati e plasmati dal metal europeo. In un certo senso ci sento il sentimentalismo svedese – ascoltare Black Tantra per credere – unito a un gusto melodico alla Symbolic e allo sporadico thrash metal purista dell’ottima Propagandacide.

I quattro raggiungono a malapena i trent’anni di età e sono preparatissimi dal punto di vista tecnico e strumentale. Niente fenomeni o virtuosi dello strumento, solo gente preparata al punto giusto ai fini del puro raggiungimento dello scopo. Forse manca un po’ di cazzimma, d’irruenza. Non nel senso che Spiral of Downfall sia un esercizio di stile un po’ leggerino. Piuttosto direi che le premesse sono risultate talmente buone, e per nulla scontate, che finisco per aspettarmi quel qualcosa in più che ahimé è latente. Insomma mi sorprendono in quanto thrasher, ma non in quanto autori di un disco che, su determinate basi, meritava di stagliarsi uno o due gradini più in alto.
Terzo album per loro e una qualità compositiva fra il buono e qualche nota ordinaria. Ora voglio il salto: domani, in assenza di un loro nuovo album, mi accontenterò di sedermi a un tavolo mentre tutto attorno si bevono le Ceres e si schiamazza in svariate lingue, per spararmi centocinquanta grammi di penne alla strascicata. Niente fronzoli, come nel thrash metal. E dimenticavo, il riff a metà di P.O.L. vale da solo tutto l’album. (Marco Belardi)


Grazie della segnalazione.
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