Ascoltare la musica delle sfere con Lives Outgrown di BETH GIBBONS
Ci sono album che si attendono, si immaginano, si plasmano nella mente ancor prima di ascoltarne una nota e che, nonostante le aspettative, vanno ben al di là dell’immaginazione. Il primo (se si esclude Out of Season, composto a quattro mani con Rustin’ Man, ossia Paul Webb dei Talk Talk) disco solista di Beth Gibbons è tutto questo e molto altro, e per quanto mi riguarda, in questi casi, non è necessario spendere troppe parole. Siamo lontani sia dalle atmosfere jazzate di Out of Season sia dal trip-hop dei Portishead, anche della loro versione più recente (si fa per dire, visto che parliamo del 2009) di quel capolavoro assoluto che è Third, di cui si riprende giusto una certa oscurità nei toni (penso a The Rip) e nella cupezza concettuale di fondo dell’intero progetto.
Un lavoro, Lives Outgrown, che parte da un folk estremamente cupo e fosco su cui si stagliano orchestrazioni a volte liriche (negli archi che sovente si fanno strada tra le composizioni, come nello struggente capolavoro Lost Changes), a volte dissonanti (le ritmiche quasi tomwaitsiane di Reaching Out) e altre volte quasi “progressive” (termine da prendere con le pinze) come in Beyond The Sun.
Questo folk – che poi non è mai soltanto folk – che ingloba uno spettro di sensazioni realmente sconfinato è anche supportato da una produzione a dir poco sbalorditiva, opera di James Ford (membro dei Last Shadow Puppets e produttore di straordinario talento) e Bridget Samuels che, insieme a Lee Harris, batterista dei Talk Talk (band che in certe cose viene richiamata dalle atmosfere dell’album), costruiscono una struttura per tutte le trame tessute da Gibbons. Una produzione che crea un suono fatto di chiaroscuri, capace di esaltare ogni minima sfumatura dei dieci brani che compongono l’album, dagli archi ai fiati, dalle straordinarie percussioni (a volte realizzate utilizzando oggetti “domestici”), alle chitarre, fino ad arrivare, ovviamente, alla voce divina ed emozionante di Beth Gibbons, un vero e proprio strumento dal sapore arcaico, capace anche a sessant’anni di toccare le corde giuste in ognuno di noi.
Se si usano superlativi assoluti una ragione c’è: perché il miscuglio di umori e generi apparentemente distanti e inconciliabili che si plasma minuto dopo minuto è oggettivamente di un altro pianeta, inclassificabile, quasi un’esemplificazione del concetto di musica delle sfere. Perché tanto Third rappresentava la migliore versione possibile e contemporanea dei Portishead nel 2009, quanto Lives Outgrown è la migliore esternazione artistica dei mille volti di Beth Gibbons (concetto chiaro sin dalla copertina), circostanza che si riflette anche nei suoi testi.
Perché, come da titolo, il disco parla del tempo che passa, dei dolori e delle gioie che si alternano con lo scorrere degli anni, tra passato e presente tra morte, maternità, solitudine e sentimenti che non si riescono più a sentire come un tempo.
Ciò che colpisce maggiormente è che lo sguardo della Gibbons non è mai nostalgico, o di rassegnazione, ma di accettazione – a volte dolorosa – del cambiamento (Lost Changes) e di certo felicità e spirito propositivo non possono essere ricercate tra i fantasmi del passato o in un’ipotetica (e stanca) replica dei tempi che furono, ma nel proprio presente, con tutti i suoi limiti e con tutte le difficoltà che comporta. Una consapevolezza che non è mai veramente liberatoria o rassicurante, ma estremamente matura e solida e che si riflette in tutte le pagine di un album di livello eccelso e che supera ampiamente tutte le aspettative. (L’Azzeccagarbugli)


Sempre amato sia lei che i Portishead, tra l’altro è appena uscita l’edizione del 25° del NYC roseland live che uno dei live più belli di sempre, con dei brani in più. Meraviglia.
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