Usyk, il nuovo re dei pesi massimi

“Cos’hai di speciale che gli altri pugili non hanno?” “Ho lo spazio in mezzo ai denti incisivi”. Così rispondeva Oleksander Usyk, con il modo volutamente ingenuo e giocoso che usa spesso nelle interviste, alla domanda di una giornalista che gli stava chiedendo come avesse fatto, in così poco tempo, ad assurgere all’olimpo della boxe mondiale. Trecentocinquanta combattimenti da amateur (quindici persi). Rappresentante ucraino ai campionati europei e mondiali, alle olimpiadi e alla coppa del mondo, dove si scontra con gente del calibro di Pulev e Beterbiev. Competizioni che gli fruttano tre ori, un argento e due bronzi. Da lì a salire. Passato ai professionisti, domina la categoria cruiser, diventando undisputed eclissando per stile e potenza chiunque gli si pari davanti. Ma non gli basta.

Sale di categoria, lui che è un cruiser naturale, e tenta l’impresa riuscita a un solo pugile prima di lui, Evander Holyfield. Il tragitto nei massimi lo inizia affrontando Chazz Witherspoon, che nel settimo round si ritira, definitivamente, nel suo angolo. Poi è la volta di Derek Chisora, e nuovamente l’ucraino esce vincitore per decisione unanime. Lavoro semplice per gli arbitri. Poi, due grandi incontri a sfidare il wonder kid Anthony Joshua. Se il primo lo vede vincitore ai punti per decisione unanime, e quindi detentore di tre cinture, durante la difesa dei titoli, sempre contro Joshua, Usyk rifila al gigante inglese un’altra sonora batosta, sfoggiando una classe pugilistica inaudita. Un bel tonfo per la carriera di Joshua. Ma sono le ferite psicologiche quelle che si fanno più sentire, e che lasciano AJ con il morale veramente disintegrato (le dichiarazioni post-match sono lì a testimoniarlo). L’incontro contro Daniel Dubois, gestito in completa scioltezza da Usyk, fa scalpore solo per un colpo basso portato dall’inglese. Con buona pace dei polemisti, era un colpo basso.

Alla fine, Usyk vede l’obiettivo. Un match che gli appassionati aspettavano da ventiquattro anni. Il match per l’unificazione dei titoli mondiali dei pesi massimi, il titolo di undisputed precedentemente detenuto da Lennox Lewis e vacante dal 2000. L’avversario è Tyson “The Gipsy King” Fury. Non un peso massimo qualsiasi. Da molti considerato il campione lineale, ad una corporatura imponente – 206 centimetri di altezza per 190 chili, che sa usare molto bene anche per stancare, semplicemente abbracciandoli, gli avversari – somma un reach di 216 centimetri, ma soprattutto una agilità e una imprevedibilità fuori dal comune, inusuale per un individuo di quella stazza. Nella fomentata trilogia contro il Bronze Bomber Deontay Wilder, che sino ad allora riusciva a sopperire alla sua infima tecnica con il devastante strapotere del suo destro, Fury aveva già dimostrato anche di saper incassare oltre ogni umano limite. Va infatti al tappeto dopo aver preso in piena faccia il classico treno transcontinentale di Wilder – un pugno che spedirebbe direttamente al Creatore anche il più mangiabambini degli atei comunisti, vincendone la miscredenza – ma dopo una manciata di secondi, durante i quali sembra pensare se valga la pena in fin dei conti rialzarsi, si rialza.

Uscirà dai tre incontri da vincitore indiscusso e iridato.

Il match tra Usyk e Fury è preceduto dall’attesa e dai soliti pronostici. Il Gipsy King, abituato ai thrash talk pre-gara, nella raffica di insulti (sucker, rabbit, little sausage) che dirige a Usyk nell’arco di mesi non manca di sottolineare continuamente che è un uomo “piccolino” (e brutto). Lo stile di Tyson Fury fuori dal ring può non piacere. Ma, al di là della verve sempre sopra le righe, non è un coglione. Straparla sapendo di farlo, ma tutti sanno che su questo punto ha ragione: tra Fury e Usyk ci sono, a favore del britannico, almeno venti chili in più e altrettanti centimetri di allungo. Anche fuori dal ring, i due non potrebbero essere più distanti. Esuberante Fury. Pacato Usyk. Fanfarone il primo. Modesto il secondo. L’unica cosa che hanno in comune è la sicurezza nei loro mezzi extraterrestri.

L’incontro, iconico nella sua – solo apparente – semplicità, viene vinto da Usyk per decisione non unanime.

Cos’ha di speciale Usyk che gli altri pugili non hanno? “Il gatto” ucraino ha una muscolatura mostruosa. È veloce, si muove rapidamente, il suo gioco di gambe è magistrale. Si sposta di continuo. Come un ballerino, le mani si muovono come il resto del suo corpo, armoniche, donandogli la capacità di portare una miriade di colpi diversi e, allo stesso tempo, di conservare una guardia semplicemente perfetta. Cuore e polmoni non sono quelli di un essere umano. Ma non è speciale per questo. Qualcosa gli manca: l’unica infima, microscopica, incrinatura della sua difesa la poteva trovare solamente un grande stratega come Fury. La fantastica sbruffonaggine che l’inglese dimostra anche sul ring – costellata di linguacce e balletti, che lo porta più di una volta a invitare, con la guardia bassa, l’ucraino all’angolino – serve a irretire l’avversario ma anche a nascondere la sua abilità di analisi. Fury ha trovato quell’unica incrinatura e l’ha sfruttata. Tra quarta e quinta ripresa l’inglese inizia a mandare a segno una serie di precisi montanti destri, e Usyk accusa i colpi. Le gambe tremano, e non solo quelle. Torna nel suo angolo. Respira profondamente prima di sedersi. Pensa di avere la mascella fratturata. Chi ha provato a salire sul ring sa che tre minuti sono eterni e Usyk ha lo sguardo di chi pensa di aver finito il carburante.

Quando rientra, però, dimostra a tutti, e non a parole, cos’ha di speciale ed unico. Abnegazione assoluta, rigore. La sicurezza che ti possono dare solo i movimenti che hai provato e riprovato milioni di volte in palestra, ai colpitori, al sacco ancora, ancora, ancora e ancora. E soprattutto una energia arcana, che riesce a recuperare da qualche oscuro recondito angolo del corpo e dell’anima. Accorcia le distanze, mangia uno dopo l’altro i centimetri di vantaggio dell’inglese, continua a demolirgli la guardia, al netto dei pugni di Fury che, pur schivati o parati, sono come colpi di maglio, e qualcosa, comunque, fanno. Colpi al corpo, colpi alla faccia. Sul ring si manifesta, nell’istante supremo di quella battaglia, l’epifanica “sistematicità con cui la boxe coltiva il dolore a favore di un progetto, di uno scopo di vita”.

Alla nona ripresa, ventidue anni, una vita, vengono condensati da Usyk in uno scopo, in un gancio sinistro che centra Fury al mento con un angolo perfetto, trasformandolo, da grande pugile, in vittima inerte della successiva concatenazione di colpi. Barcolla, assente. L’avversario non si fa abbracciare. Dopo un prolungato balletto per tutto il ring, contrappuntato dagli ulteriori colpi dell’ucraino, Fury riesce a non finire al tappeto solo grazie a una istintuale prontezza nel raggiungere le corde. Il conteggio, uno dei più lenti della storia della boxe recente, e la campana lo salvano dal KO.

L’incontro, è evidente, è stato vinto in quel preciso momento. La split decision è generosa. Una decisione unanime avrebbe reso giustizia. “Non importa”, sentenzia Usyk subito dopo il match, “da nove mesi ho pensato, in ogni istante, solo alla boxe. Ora voglio pensare alla mia famiglia”. Ora è il re dei massimi. Undisputed. Undefeated.

L’ucraino ha tutto questo di speciale. Ma lui dirà che ha solo “lo spazio in mezzo ai denti incisivi”. (Bartolo da Sassoferrato)

3 commenti

Lascia un commento