Avere Vent’Anni: LIARS – They Were Wrong, So We Drowned

Per parlare dello splendido They Were Wrong, So We Drowned è per me quasi un dovere raccontare tutt’altro, perché per me i Liars saranno per sempre legati al contesto temporale in cui si sono affacciati al “grande” pubblico. Quindi se volete soltanto leggere dell’album, potete scrollare in basso, dopo la copertina del disco. Ci siete ancora? Benissimo.

Internet nei primi 2000 era come l’universo: in espansione.

Il passaggio alle prime connessioni veloci ha inconsapevolmente cambiato per sempre la nostra quotidianità e ha modificato le nostre abitudini e – in meglio e in peggio allo stesso tempo – il modo in cui ci si rapporta col prossimo.

In quegli anni, a latere di tutti gli antenati dei sistemi di messagistica istantanea, prima dell’avvento dei social, abbiamo assistito all’esplosione dei forum e delle comunità virtuali, spazi in cui ci si iscriveva sulla base di un “interesse” comune e poi – solitamente- si spaziava sugli argomenti più disparati e, in molte occasioni, si passava dalla conoscenza virtuale a quella personale.

Molte delle modalità di comunicazione attuali derivano da quel periodo, dall’uso di certi termini, dai progenitori dei meme, arrivando financo alle modalità di approccio – in ogni senso – verso altre persone, fatte di messaggi criptici, citazioni e ammiccamenti e lunghe attese perché qualcosa, o forse nulla, accadesse.

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Personalmente ho uno splendido ricordo di quel periodo, sia perché ho conosciuto decine di persone interessanti – anche in negativo, compreso un manipolo di psicopatici degni di un museo degli orrori- sia perché ho incontrato persone che per me sono tra i pochi amici veri che ho ancora oggi, sia perché ho visto coppie nascere e crescere in quei contesti, ma soprattutto perché è stata un’esperienza irripetibile.

Se penso alle comunità metal di quel periodo, ad esempio, mi viene in mente la più assoluta libertà di espressione che spesso – quotidianamente – superava ampiamente i limiti della civiltà e della legalità (e sia chiaro, rifarei tutto, non cambierei neanche una virgola). Una giungla in cui si parlava di tutto a brutto muso, si finiva per scoprire decine e decine di gruppi al giorno, ci si confrontava con persone di età ed esperienze diverse e, a volte, si facevano le ore piccole scrivendo, progettando “colpi di stato” a botte di cloni e si creavano fazioni e cricche, come manco le bande di Guerrieri della Notte.

Inoltre, arrivati all’apice del loro successo, i forum erano diventati anche una risorsa su cui si faceva affidamento per concerti, riviste e che era in grado di creare anche dei “micro-fenomeni”.

Ecco, io sono veramente convinto che gran parte del successo di culto dei Liars sia dovuto al forum del Mucchio Selvaggio, anche noto come Forum del Cazzo. Una delle comunità virtuali in cui ho militato per maggior tempo, senz’altro la più grande in termini di numeri e di utenti, su cui ho visto nascere e ho commentato l’epoca d’oro delle serie TV e sulle cui pagine alcuni gruppi diventavano più famosi dei Rolling Stones.

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I Liars fanno parte di questa categoria: il periodo che va dal secondo al quarto disco sembrava quello di una band che riempiva gli stadi, laddove parliamo di un gruppo che partiva da una certa no wave americana vicina a Pop Group e a This Heat e che, proprio da questo album, intraprendeva un percorso molto più strutturato e sperimentale che trovava il perno nella presenza quasi sciamanica del suo leader Angus Andrew.

Una proposta di certo non facile, che in quegli anni e in quel contesto, sembrava l’unica possibile, l’unica che davvero contava qualcosa.

Per capirci, quando ancora si compravano i dischi (lasciamo stare che chi scrive lo fa ancora), per i Liars c’era la corsa a comprare i singoli, gli split, gli EP che poi venivano commentati per pagine e pagine con toni accesi, superlativi assoluti e continui sfottò.

Un fenomeno che, a un certo punto, portò un gruppo di nicchia come i Liars a fare un tour praticamente soldout in Italia all’uscita del terzo album, dove ancora ricordo un Circolo degli Artisti mai così gremito, in cui era presente il pubblico più disparato: dal giornalista del TG nazionale, al metallaro diciottenne, dal “mucchietto” del forum, ad Enrico Ghezzi.

Una trasversalità che, oggi, non si vede più neanche con il binocolo e che – sono sicuro – era il frutto di quel tipo di approccio.

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Un approccio che consacrò “all’immortalità” anche They Were Wrong, So They Drowned, un folle non-concept sulla stregoneria in cui gli aspetti più ossessivi dell’esordio diventavano centrali e fungevano da ossatura per delle nenie elettriche intriganti, perturbanti e indimenticabili.

Un disco fatto di percussioni e rumore, come si intuisce dall’iniziale Broken Witch, di pattern ripetuti all’infinito, come nel singolo (che per me, all’epoca, era più noto di una Last Nite degli Strokes) There’s Always Room on The Broom, che, dal vivo, venivano amplificati, dilatati fino a diventare un sabba di distorsione e sperimentazione.

In particolare, un brano come We Fenced Other Gardens with the Bones of Our Own, dal vivo era e resta un’esperienza mistica ed irripetibile che ancora oggi, decenni dopo, mi porta direttamente indietro nel tempo, così come il finale che più storto non si può di Flow My Tears the Spider Said, una sorta di sonata per organo e voce che finisce nel nulla, quasi una Outside the Wall sotto acidi.

Una roba che – al di là dei riferimenti sopraccitati – sembra ancora oggi provenire da un’altra dimensione sia a livello di suoni, che di composizioni e che ha avuto un successo – seppur limitato – oggi irripetibile.

Perché non solo non ci sono più quelle comunità (sì, esistono ancora i forum, c’è Reddit, ma non è la stessa cosa), perché le poche riviste che esistono ancora fanno pochi numeri e – purtroppo – si rivolgono ad un pubblico quantomeno di trentenni.

E perché ogni fenomeno vive e muore nel giro di qualche giorno e di qualche stream, fino a quello successivo e non c’è più tempo di decantare alcunché.

Ciononostante, quando penso a quel periodo e ad album come questo, è talmente vivo e intenso il ricordo di quelle notti, delle attese di conoscere persone che non avevi mai visto in faccia e di certe cattive abitudini che, in parte, mi porto dietro ancora oggi, che non provo neanche malinconia, ma mi si stampa solo un sorriso in faccia, lo stesso sorriso che ho ancora oggi quando finisco di ascoltare quei quaranta minuti perfetti che compongono il secondo Liars.

Perché alla fine, gli anni, il tempo, non sono nient’altro che una convenzione.

O quasi.

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