Avere vent’anni: KATATONIA – Viva Emptiness

Quest’annata di Avere vent’anni inizia a fare molto male, perché sto iniziando a parlare di dischi che, nella mia mente, non sono così lontani nel tempo.

Ad esempio ricordo come se fosse ieri di aver comprato Viva Emptiness a Discoteca Laziale, che il grande Massi gli aveva concesso un “posto d’onore” sulla colonnina delle novità e che se ne parlò tantissimo alla sua uscita. Ricordo perfettamente di aver trascorso la mia prima pasquetta da studente universitario all’Alpheus per assistere ad uno dei più deliranti festival che siano mai stati organizzati, a partire dal geniale nome RESURRECTION DAY 666. Il bill era il seguente: Vision of Atlantis, Finntroll e Katatonia headliner.

Ricordo con chi sono andato a quel concerto, ricordo, sì, io mi ricordo persino i dischi che comprai al banchetto di Domenico e di aver acquistato maglietta e quello che venne ribattezzato “l’accendino della depressione” e mi viene in mente che, in effetti, dovrebbe esserci anche una foto scattata in quell’occasione. La ritrovo e… magicamente i vent’anni si sentono tutti e sembrano ancora di più (a parte Mighi Romani che, come Dorian Gray, avrà un ritratto nelle sue sterminate cantine che invecchia al posto suo).

Tutto normale, anche l’erronea percezione del tempo che passa, ma si tratta di una sensazione che inevitabilmente porta un po’ di malinconia, di rimpianti e di nostalgia per tempi – quantomeno per alcuni aspetti – più semplici.

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Uno stato d’animo perfetto per parlare dei Katatonia, nonostante Viva Emptiness, quantomeno ad un ascolto superficiale, possa apparire meno cupo rispetto al passato. Senza troppi giri di parole, escludendo i primi due album, Viva Emptiness è probabilmente il lavoro più tirato degli Svedesi e quello che segna il riavvicinamento a sonorità più vicine al metal, anche se filtrato da una sensibilità alternative che ha sempre caratterizzato la proposta dei Katatonia. E quindi, accanto a brani più “quadrati” e lineari come Will I Arrive e Wealth, troviamo composizioni con momenti altrettanto pesanti, come la straordinaria apertura di Ghost of The Sun o Criminals, nei quali è possibile percepire anche influenze più rock che, all’uscita del disco, fecero storcere il naso a molti. In particolare si contestò una marcata influenza dei Tool in alcune soluzioni ritmiche e nelle linee vocali di Renske, come è accaduto a moltissimi gruppi nei primi anni dei 2000 dopo l’uscita di LateralusPer quanto un’influenza in brani come Complicity – e forse ancor più presente nel successivo The Great Cold Distance – sia innegabile, non solo non l’ho mai avvertita negativamente, ma col passare del tempo l’ho percepita sempre meno. Sintomo del fatto che i Katatonia, come tutte le grandi band, sono stati capaci di inglobare influenze terze rendendole parte integranti della propria proposta.

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Un album senz’altro più diretto dei suoi predecessori, ma non meno opprimente e pessimista. In tal senso, sia i suoni che i testi sono sempre molto cupi; questi ultimi possiedono, inoltre, una grande carica “visiva” che si sposa alla perfezione con lo splendido artwork di Travis Smith, uno dei suoi migliori in assoluto.

L’unione di tanti stili e umori diversi trova la sublimazione perfetta in brani come Sleepers e One Year From Now – uno dei più malinconici in assoluto – e tale varietà consente ai Katatonia di sperimentare territori diversi, come nella bellissima Omerta, breve brano folk desolante e incredibilmente cinematografico, un racconto di latitanza e rimpianti, interrotto ex abrupto, come il finale dei Soprano. E poi c’è Evidence, che è tra i loro brani migliori in assoluto, punto di unione tra passato e presente talmente perfetto da sembrare “studiato”, con un testo a dir poco opprimente nella scansione temporale della storia d’amore al centro della canzone (One minute no collapse … One thirty breathing lapse…One thirty I collapse) e con un finale potente e struggente come un melò di Wong Kar-wai.

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Nonostante il livello medio-altissimo delle composizioni, Viva Emptiness ha qualche calo e una chiusura anticlimatica nella conclusiva strumentale Inside The City of Glass che verrà pubblicata in una nuova e più riuscita versione “cantata” nell’edizione remixata per il decennale dell’album (nuovo mix che aggiunge poco o niente e che rovina molti brani alzando eccessivamente il volume delle orchestrazioni a discapito delle chitarre).

Un lavoro comunque davvero ottimo e, soprattutto, estremamente importante, in quanto rappresenta un nuovo spartiacque non solo nella carriera della band, ma anche tra le generazioni di ascoltatori. E ciò perché la mia generazione per approcciarsi ai Katatonia è partita da Brave Murder Day, mentre i più giovani, quelli che oggi hanno vent’anni, sono partiti proprio da Viva Emptiness, che viene oggi considerato il capostipite del sound che questi ultimi hanno imparato ad apprezzare negli ultimi anni. Sintomo che si tratta di un disco che ha lasciato una traccia importante. (L’Azzeccagarbugli)

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