Avere vent’anni: febbraio 2002

DECAPITATED – Nihility

Marco Belardi: Per quanto l’album contenga pezzi veloci ed altri ritmati, lo identifico da sempre in Spheres of Madness, forse la sua canzone più famosa, tanto indimenticabile quanto summa di tutto quel che, a mio parere, non andava più per il verso giusto a soli due anni da Winds of Creation. I Decapitated avevano pubblicato un album parecchio bello, ma non l’album che m’aspettavo. Avevo tanto sperato in una versione più matura e definita di esso: Nihility era troppo definito, troppo ben suonato e malvagiamente prodotto, tanto che avrei sputato sangue, bestemmie e insulti sul nefasto suono di cassa che Vitek si ritrovò appiccicato addosso. Sembrava una tastiera meccanica, e peraltro io ne ho una in casa, oppure il ticchettio di quegli orologi che di notte fanno un chiasso allucinante. Ma mai avrei pensato alla cassa di una batteria con un suono del genere, e solo Cruelty and the Beast seppe fare nettamente di peggio. Li vidi perfino dal vivo in quel periodo: delle autentiche macchine da guerra, tali da riappacificarmi con loro. Eppure non riesco a rimetter su Nihility a cuor leggero e continuo a trovarlo, a tant’anni di distanza dalla sua uscita, inferiore al suo acerbo e monumentale predecessore.

ENID – Seelenspiegel

Griffar: Terzo album dei tedeschi Enid, tra i primi ad essere dichiaratamente ispirati dai Summoning. È il loro debutto sulla nostrana Code666, e del black sinfonico dei due primi dischi non rimane praticamente più nulla, a parte qualche traccia di chitarra dalla classica sonorità austriaca stile Amestigon o Angizia: avete presente la produzione di Georg Hrauda ai Tonstudio Hoenix con quel suono stridulo ed inconfondibile che ha reso immortali i primi dischi degli Abigor? Ecco, tutto qui. Tutto il resto sono composizioni molto melodiche di impostazione medioevale, folk e menestrellare. Di più: per lunghi tratti non si può neanche considerare heavy metal. Grande spazio trovano arrangiamenti di chitarra acustica, archi, flauti, tastiere e parti di chitarra solista che accentuano l’impressione di un lavoro incentrato su melodie ed atmosfere (non necessariamente metal) soffici e sognanti, tristi e malinconiche come quelle dei cantastorie medioevali che musicavano episodi che invariabilmente terminavano in modo tragico. Nel corso di tutti i quasi 46 minuti del disco Martin Wiese usa la voce pulita, tra il Messiah Marcolin periodo Ancient Dreams (come in Land of the Lost), l’a-cappella e il coro polifonico; sembra quasi che la musica serva solo ad accompagnarne i vocalizzi. Qualche nota la prende a stento, qualcun’altra secondo me la toppa proprio, ma nel complesso il risultato si lascia ascoltare volentieri. Questo se non siete dei blacksters assetati di sangue ed affamati di viscere di strega vergine, perché includere Seelenspiegel nel black metal sarebbe un errore: un paio di minuti di screaming e qualche chitarra distorta non bastano a definire un disco black metal (sebbene preceduto da qualche aggettivo tipo medieval o symphonic), perché i tempi dell’esordio Nachtgedanken erano già relegati in un angolo buio, polveroso ed inaccessibile nell’armadio del passato.

LOCK UP – Hate Breeds Suffering

Piero Tola: Considero Hate Breeds Suffering il vero testamento artistico di Jesse Pintado. L’ultimo vero disco che conta veramente in cui compare e in cui si sente la mano pesante di uno dei padri del grindcore. Difatti, dopo questo disco i Lock Up, vera e proprio all-star della musica estrema, sembra abbiano perso la stella polare, vagando nella notte tra dischi carini, decenti e anche simpatici, ma nulla più. Di certo non al livello di Hate Breeds Suffering o del precedente Pleasures Pave Sewers, a mio parere un pelo inferiore al disco di cui si parla oggi. La differenza è grossomodo quella che passa tra un Tomas “Tompa” Lindberg ancora nel fiore degli anni su HBS ed un Peter Tagtgren alla voce su PPS. Entrambi sono, ca va sans dire, due Gesu’ Bambini del death metal, ma la prestazione è decisamente migliore nel primo caso, con uno stile che perfettamente si amalgama al clima di distruzione, annichilimento e spargimento di sale sulle rovine che si accompagna a questo mostruoso lavoro, davvero estremo e spaventoso per intensità e ispirazione. Sedici pezzi in nemmeno mezz’ora che scandiscono tutto lo scibile della miseria umana: autodistruzione, odio e chi più ne ha più ne metta. Nessun testamento può essere più adatto a chi ha plasmato uno dei generi più potenti e comunicativi della storia da quando l’uomo imbracciò una chitarra e decise di attaccarla alla corrente elettrica.

ASTARTE – Quod Superius Sicut Inferius

Griffar: Questa che solo apparentemente è una all-female black metal band – batterista e tastierista sono due uomini, figurano come session ma il loro ruolo è tutt’altro che marginale – il tributo più cospicuo lo paga a Dimmu Borgir ed Old Man’s Child, anche se il fatto di essere greche e di essere state sponsorizzate da Sakis Tolis in modo ben più che energico costringe a riconoscere ben più di una influenza Rotting Christ, Necromantia e Varathron. Quod Superius Sicut Inferius è il loro terzo disco, quello con le composizioni più curate ed accattivanti che per chi vive a pane e black metal melodico e bombastico è impossibile non apprezzare. I pezzi funzionano che è una meraviglia, senza particolari picchi né in senso positivo (una vera e propria highlight non c’è) né in quello negativo (non ci sono nemmeno ciofeche). I riff sono curati come mai prima, i tempi sono dinamici e trascinanti, le tastiere equilibrate e non invadenti. Diciamo che la voce di Kinthia avrebbe potuto essere un po’ più incisiva e meno standardizzata, ma si deve riconoscere che si è sentito di molto (ma molto) peggio anche da trucidi maschietti quattropallati. Poi forse 66 minuti di durata sono un po’ eccessivi. Per quanto mi riguarda questo è l’ultimo loro disco che ho comprato: il successivo Sirens uscì due anni dopo per la nostrana Avantgarde, la quale aveva gran fretta di monetizzare la fama di una delle prime band a prevalenza femminile (di aspetto assai gradevole, ovviamente) pubblicando un album a mio avviso pessimo e sputtanato senza ritegno, quindi le persi completamente di vista. Ne sentii nuovamente parlare solo nella triste occasione della morte della bassista Tristesse (suonava anche nei raw blacksters greci Vorphalack, band superba), venuta a mancare nel 2014 a soli 37 anni per una leucemia fulminante.

TIAMAT – Judas Christ

Michele Romani: Nonostante i molti tentativi di rivalutazione postumi, a me questo Judas Christ non ha mai convinto fino in fondo. Siamo in piena fase dark-goth rock per la creatura di Jonas Hedlund, che già aveva avuto un anticipazione con il mediocre Skeleton Skeletron di due anni prima, anche se le melodie di Judas Christ sono ancora più dirette ed easy listening. Ciò non deve essere per forza un fattore negativo, anzi da un certo punto di vista apprezzo questo tentativo di rendere più freschi e memorizzabili i brani, ma la cosa purtroppo non riesce del tutto, visto che per quanto mi riguarda i pezzi da ricordare alla fine si riducono a tre: l’opener The Return of the Son of Nothing (molto “vecchi” Tiamat), la paraculissima ma spettacolare Vote for Love e la malinconica semiballad Love is as Good as Soma. Il resto si barcamena tra pezzi un po’ sulla falsariga del precedente ed altri molto sullo stile dei Sisters of Mercy, senza riuscire a convincere fino in fondo, compresi i due brani semi-acustici finali che Edlund poteva tranquillamente risparmiarsi. Per fortuna che con il successivo Prey le cose andranno decisamente meglio.

JOEY RAMONE – Don’t Worry About Me

Ciccio Russo: Quando il suo primo e ultimo disco solista fu pubblicato, Joey Ramone era già morto da un anno, stroncato dal linfoma diagnosticatogli nel 1995, grossomodo in contemporanea con l’uscita del disco d’addio dei Ramones. Don’t Worry About Me fu e resta un ascolto raggelante per l’inestricabile intreccio tra il romanticismo adolescenziale del cantante, ora libero di tracimare senza limiti, e il racconto della malattia, quando non il presagio del decesso. La cover di What A Wonderful World di Louis Armstrong posta in apertura diventa uno straziante congedo dal mondo dei vivi ed è davvero difficile capire quanto ciò fosse il senso che intendeva dargli Joey o quello che gli demmo inevitabilmente noi fan. E Stop Thinking About It e la title-track sono davvero dedicate, come sembra, a una donna con cui è andata male o l’interlocutore femminile è la signora con la falce? Assumono, col senno di poi, connotati tetri anche i pezzi in apparenza più spensierati, come Mr. Punchy e Maria Bartiromo, serenata elettrica per l’allora conduttrice del programma di borsa della Cnbc. Tutto pur di non pensare troppo al cancro che ti sta divorando, anche appassionarsi all’andamento di Wall Street perché te lo racconta una giornalista carina. Ed è sconcertante la naturalezza e la semplicità con cui in I Got Knocked Down (But I’ll Get Up), canzone legata in modo diretto all’esperienza ospedaliera, Joey canta di “rivolere la sua vita” perché “essere malati fa schifo”. Prodotto da Daniel Rey, che si occupò di quasi tutte le chitarre, l’album è carino, regge il confronto con il passato ma non è certo un classico. Tuttavia rimane ancor oggi un’esperienza emotiva dal quale chi ha amato i Ramones può uscire difficilmente indenne. Don’t Worry About Me, sull’onda della commozione per la morte del cantante, si piazzò al ventunesimo posto della classifica di Billboard. End of the Century, che fu il maggior successo commerciale della storia dei Ramones, non era andato oltre la quarantaquattresima posizione. L’ennesimo crudele sberleffo di un destino che si sarebbe accanito fino all’ultimo sui quattro finti fratelli di New York.

TROLLECH – Synové Lesů

Griffar: Non è passato tanto tempo dal loro esordio Ve hvozdech… Un paio di mesi appena, tre al massimo. Si potessero mettere le faccine negli articoli qui ce ne starebbe bene una che si smandibola, ma, visto che non si può, limitiamoci ad immaginarla. Ovviamente non è cambiato nulla… e come avrebbe potuto essere? Il classico esempio di come le etichette – ancorché underground come la Eclipse –  abbiano un’idea ben precisa in termini di marketing: un doppio album è insostenibile per il potenziale acquirente, quindi meglio dividere l’opera in due parti e mettergli due titoli diversi, si guadagna qualche lira in più e si fidelizza il cliente. Synové Lesů è preciso identico al suo predecessore, dura quasi un’ora, annovera nove brani di black metal (pardon: forest black metal, come piaceva loro autodefinirsi) veloce ed aggressivo, con latenti influenze pagan/folk che rendono più vario il risultato finale. Produzione nella media, tecnica nella media, canzoni nella media, batteria elettronica asettica come quasi sempre capita, melodie gradevoli ma a lungo andare un po’ scassapalle. Se vi è piaciuto il primo disco potete ascoltare questo ad occhi bendati e ne andrete matti lo stesso, se non vi è piaciuto non è Synové Lesů quello che vi farà cambiare idea, e se qualcuno mi spiega che senso abbia pubblicare due dischi praticamente identici nell’arco di tre mesi lasci un commento qui sotto: io sono sempre propenso ad imparare cose nuove.

RUNNING WILD – The Brotherhood

Barg: Avevo iniziato a scrivere un discorso secondo cui ci sono momenti in cui bisogna sforzarsi di essere obiettivi, che il cuore a volte deve lasciare spazio alla razionalità, eccetera eccetera. Tutto questo perché The Brotherhood non è in effetti al livello dei dischi precedenti, c’è meno epicità e più groove, ci sono meno momenti pirateschi, la drum machine è particolarmente monotona, eccetera eccetera. Ma poi ho pensato che se volete leggere cose di questo genere vi basta aprire un qualsiasi altro sito: qui ci scrivo io e a me The Brotherhood piace, che diamine. D’accordo che non sarà (inserire nome di altro disco dei Running Wild a caso), ma è sempre un disco dei Running Wild: le parti di chitarra solista salvano sempre la baracca anche negli episodi meno ispirati, la voce di Rock’n’Rolf è sempre quella, e poi anche qui ci sono dei bei pezzoni trascinanti da cantare a squarciagola col pugno al cielo. Io non riesco a essere obiettivo nel parlare dei Running Wild, e sforzarmi di farlo mi verrebbe davvero troppo innaturale. Per cui ascoltatelo e se non vi piace bene, se vi piace ancora meglio. Ma non ditemi che l’omonima, tanto per dirne una, non vi fa venire voglia di prendere un pedalò, issare la bandiera nera e andare all’assalto della spiaggia affianco, perché in quel caso vi consiglierei di cambiare genere.

UNTIL DEATH OVERTAKES ME – Symphony I: Deep Dark Red

Griffar: Un’intro elettronica che non stonerebbe in un disco di cosmic black metal dei giorni d’oggi apre il secondo album dei maestri di funeral doom belgi Until Death Overtakes Me. Va beh, in realtà è un progetto solista del solo Nulll, ma a me viene di parlare dei gruppi sempre al plurale. Sistemata la questione sintattica rituffiamoci in questa melma putrescente messa in musica: anche se si chiama Symphony I questo è il secondo album, dato che Symphony II uscì prima; i pezzi qui presenti sono quelli del demo, risuonati e riarrangiati. Come in tutta la prima parte della loro carriera, la musica è un concentrato di sofferenza, dolore, agonia, dispiacere, delusione, morte, morte e ancora morte. I pezzi sono tutti talmente lenti che praticamente non hanno bisogno di batteria, solo un colpo di timpano ogni tanto e qualche lieve sfioramento del ride, niente grancassa, nessuna ritmica. La chitarra disegna riff terribilmente cupi che danno l’impressione di essere un unico incedere senza ripetizioni di note, e sono le rare sezioni di clean guitar e le tastiere quelle che danno un senso logico al tutto e riportano la traccia al formato-canzone più usuale. La voce è un growling mortifero impastato e privo di qualunque somiglianza con ciò che viene considerato “canto”. In tutto questo il Nostro riesce persino ad inserire delle melodie gradevoli, utilizzando principalmente le tastiere, ovviamente funeree come lo stile richiede. La prima traccia They Never Hope è a parere di chi scrive uno dei pezzi funeral doom più riusciti della storia (davvero non riesco a definirlo bello perché sarebbe fargli un torto… questa musica ripudia tutto ciò che può definirsi bello), mi piace sottolineare però il fatto che, nonostante il genere sia così estremo e soffocante, questo disco riesce a proporre più di una sfaccettatura, come nella traccia di sola elettronica In the Light of the dying Summer, mestamente melodica ed in grado di alleggerire l’ascolto. Vent’anni e non sentirli, album eccellente oggi come allora. Tra l’altro tutta la sua musica è su Bandcamp in modalità name your price… quando avete voglia di autoinfliggervi sofferenza e angoscia sapete a chi rivolgervi.

3 commenti

  • per me Judas Christ è il miglior disco dei Tiamat… mi sa che sono l’unico a pensarla così. il guilty pleasure definitivo

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    • non lo considero il miglior disco dei Tiamat, quello è A Deeper Kind Of Slumber, ma è un disco a cui sono molto legato per ricordi personali. Sarà pure un Gothic Rock all’acqua di rose di poche pretese, ma è un lavoro che ascolto sempre volentieri e poi basta “Love is as good as soma” per dare importanza a questo lavoro. Invece, a me succede quanto scritto dal recensore con “Prey”, ricordo “Cain”, bellissima per carità, ma solo quella

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      • Love Is a good as soma e l’opener bastano a dare importanza a questo album bellissimo anche per la produzione con un missaggio direi quasi perfetto. Concordo anche su Prey.

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