Tripla recensione: AT THE GATES – The Nightmare of Being

Marco Belardi: C’è qualcosa di perverso nell’ascolto di un nuovo album degli At the Gates. Mi ritrovo puntualmente entusiasta dei suoi contenuti, segno tangibile di quanto mi senta ancora affezionato agli svedesi. E poi accade sempre che, trascorsi pochi giorni, ne ricavo una sorta d’effetto contrario, come se tutti i nodi venissero improvvisamente al pettine. È accaduto all’uscita di To Drink From the Night Itself, e si è puntualmente verificato oggi. Escono gli At the Gates, e, lì per lì, mi sembra che ogni cosa se ne stia al suo posto; al contrario At War with Reality mi lasciò piuttosto freddino nel primissimo periodo e l’avrò riascoltato una trentina di volte, giudicandolo poi per quello che è: un ottimo album, nulla da eccepire.

Gli stessi singoli di The Nightmare of Being mi avevano sostanzialmente spiazzato. The Fall into Time ripercorreva schemi particolarmente cari ai Dark Tranquillity, mostrando una produzione nettamente migliorata rispetto a To Drink From the Night Itself, e non riusciva a nascondere quanto Tompa sia finito, quasi del tutto afono. Onestamente non è stato un gran biglietto da visita, almeno non per me.

L’album mi ha fatto inizialmente gridare al miracolo, come ampiamente previsto. Una direzione del tutto opposta rispetto a quella offerta agli albori della reunion, vuoi perché non c’è più Anders Bjorler – una perdita abissale nonostante il rimpiazzo di Jonas Stalhammar (God Macabre, Bombs of Hades, The CrownThe Lurking Fear) – vuoi perché con la precedente uscita si comprendeva bene quanto si stessero un po’ impantanando, e, nonostante alcuni pezzoni come Palace of Lepers, potrebbe esser stata presa la strategica e salvifica decisione d’attuare una sorta di parziale tabula rasa. Che poi, a dirla tutta, un vero e proprio azzeramento non riesco a percepirlo, né gli At the Gates ci vanno vicini. Certe parti di The Nightmare of Being sono rilassate, distese, in costante ricerca di atmosfera. Garden of Cyrus piazza in vetrina alcune di esse, etichettabili con quel prefisso post che già affibbiammo alla musica di Tomas Lindberg allorché debuttò coi The Great Deceiver. Adrian Erlandsson è come rinvigorito da un simile rinnovamento, non sentendosi obbligato ai soliti pattern maturati al tempo di Terminal Spirit Disease e cementati col capolavoro del 1995.

Il problema di The Nightmare of Being è che cala vistosamente a partire dal summenzionato singolo. Cult of Salvation esordisce con una melodia potenzialmente forte ma non la sfrutta a sufficienza, mentre Cosmic Pessimism prova a pescare dalle stesse parti che fecero la fortuna dei Katatonia senza disporre del necessario tiro né di una mezza idea di ritornello. A risollevare il lato B ci prova Eternal Winter of Reason, che fa benino ma non fa miracoli. Tutto il meglio è concentrato nella prima metà, dove la hit è ai punti The Paradox , che spartisce il podio con tre o quattro brani alla sua altezza. Non c’è, forse, una Palace of Lepers, né una risolutrice Daggers of Black Haze, ma gli At the Gates riescono a offrirci una continuità d’ascolto che definirei ossigeno. Bene così alla seconda senza Anders Bjorler, tant’è che alla pubblicazione di The Fall into Time avevo persino meditato circa il voler ascoltare o meno l’album.

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Ciccio Russo: The Nightmare of Being è un disco diseguale, dall’ispirazione altalenante, autoreferenziale quando non vorrebbe (il giro di Into the dead sky viene ripreso almeno un paio di volte; The Abstract Enthroned è a tratti un remake di Under a Serpent Sun). Però finalmente gli At The Gates sono tornati a fare gli At The Gates. Il grande paradosso degli svedesi è l’aver codificato, con il loro classico del 1995, un canone che poi sarebbe stato ripercorso, spesso in modo pedestre, da migliaia di band, pur essendo nati come il gruppo più sperimentale e ardito della scena di Goteborg, capace di spiazzare ed esplorare nuove e coraggiose soluzioni a ogni uscita. At War With Reality era stato accolto così bene dai circa quarantenni di oggi anche in virtù dell’immenso investimento emotivo che costoro avevano all’epoca speso per Slaughter of the Soul e dal conseguente trauma maturato con il successivo e repentino scioglimento. To Drink From the Night Itself, il primo Lp a fare i conti con la pesantissima assenza di Anders Bjorler, aveva provato a tenere i piedi in due scarpe. The Nightmare of Being, a differenza dei due predecessori, non fa nulla per compiacere i fan e in ciò risiedono sia i suoi pregi che i suoi limiti.

Il compositore principale è diventato il bassista Jonas Bjorler e, di conseguenza, i brani – a spezzare il canone da loro stessi creati – sono basati assai meno sui riff e sulla melodia e molto più sulla sezione ritmica e sulle variazioni sul tema. Il rassicurante piglio thrash delle prime due tracce erompe presto in fraseggi obliqui che sono figli anche dell’esperienza dei The Great Deceiver. I contrappunti fusion di Garden of Cyrus accolgono un sassofono. In Touched by the White Hands of Death trovano spazio un quartetto d’archi e strumenti a fiato. The Fall Into Time coniuga citazioni del Carmina Burana con gli inevitabili richiami al passato. Cosmic Pessimism è hardcore al rallentatore senza essere post-hardcore. Mancano i singoli, mancano passaggi memorizzabili, e non nego ciò possa deludere. Sarebbe nondimeno ingiusto stroncare gli At The Gates per aver ricominciato a rifuggire dalle soluzioni facili, dal succitato canone, come sarebbe stato semplice e confortevole. C’è chi sostiene sia il miglior album dalla reunion. Non concordo ma è un’opinione che ha il suo fondamento.

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Charles: Verso la fine degli anni ’80 e per tutta la prima metà degli anni ’90, la nota casa giapponese Honda riesce ad evolvere idee, esperienze e modelli precedenti in quella che all’epoca rappresentava lo stato dell’arte della moto fatta per andare forte nei rally. Il primo bicilindrico a V da 650cc era tosto, praticamente indistruttibile, ma per i tempi anche agile, concepito per la Parigi-Dakar, la gara più dura di tutti i tempi. L’affascinante prima serie commerciale, la RD03, era stata sviluppata addirittura dalle sapienti menti degli ingegneri HRC, la divisione corse della casa motociclistica, tanto che tutt’ora, dopo anni di evoluzioni ma a parità di manico (cioè di esperienza dal pilota), risulta ancora la più efficace in certi contesti, nonostante la vetustà tecnologica. È una di quelle moto che non morirà mai e che troverà sempre tantissime persone che le resteranno fedeli a vita, magari persone un po’ agée, ma dall’indubbio buon gusto.

Certo, aveva pure i suoi difettucci, ma questi furono via via risolti nei modelli successivi, la RD04 e la RD07. Modelli che, a loro volta, possono contare infinite schiere di fan. Ognuno di essi vi addurrà motivazioni tecniche validissime e condivisibilissime per attestare la superiorità dell’una sull’altra. Il motore crebbe di cilindrata, aumentarono i cavalli, ma aumentarono anche i pesi, e il nuovo telaio e le sospensioni non erano orientati al fuoristrada impegnativo quanto nella serie precedente, anche se ciò non impediva comunque al pilota di buona esperienza di andarci quasi ovunque ed era sicuramente più che sufficiente per goderne tantissimo nel semplice viaggio. Resta il fatto che l’ultimo modello, la RD07 appunto, rimase insuperato per moltissimi anni a venire, perché Honda smetterà proprio di produrla per un lungo periodo che a molti è parso interminabile. In circa vent’anni cambiano tante cose. Succedono cose assurde che presto diventano normalità. La Dakar non parte più da Parigi e non si svolge nemmeno più in Africa, le bicilindriche non sono più accettate nella competizione, perché troppa gente era morta su quei pistoni sparata a quasi 200 km/h, e poi erano troppo pesanti e non c’era più nessuno disposto a buttare il sangue per tirar fuori quei bisonti dal fesh fesh. La fascinazione per quel mondo di eroi e pionieri, moderni Magellano che letteralmente navigavano con l’aiuto delle stelle, via via era andata scemando fino a sparire quasi del tutto.

Ma, si sa, la storia si ripete. Molti proveranno a replicare quel concetto di moto, riuscendoci solo parzialmente (ma questo è un pensiero opinabile), sicuramente senza intaccarne minimamente il ricordo e l’aura, che nel frattempo erano diventati mito. Dopo anni di performanti quanto inutili moto sportive, bolse globetrotter, esperimenti bizzarri e fantasiosi, nuove mode e tendenze dominanti, tornerà in voga la semplice idea di avventura, che si insinuerà come un germe nelle menti di molti. E molti progressivamente inizieranno a chiedere con sempre maggiore insistenza una nuova Africa Twin che Honda, alla fine, concederà al suo pubblico. Trepidante fu l’attesa del ritorno. Si poneva un tema: era impossibile replicare il mito. Impossibile non solo da un punto di vista filosofico o concettuale o addirittura morale, ma soprattutto da quello tecnico, perché nel frattempo è cambiato il modo e il metodo di produrre moto. Se prima essa era un qualcosa di analogico, adesso è digitale. Non esistono più i carburatori, ci sono gli iniettori, e la fasatura non si regola più con un cacciavite, ora ci pensa una centralina elettronica che fa tutto da sola. L’elettronica e le simulazioni al computer del manovellismo ti permettono perfino di replicare il suono del motore a V, anche se sotto hai due cilindri paralleli, piattaforma sicuramente più efficiente da gestire e meno costosa da produrre. Il mercato internazionale pure è cambiato, le normative antinquinamento sono sempre più stringenti, la tendenza verso potenze sempre più elevate pare inarrestabile e Honda si vede costretta ad evolvere la sua idea di Africa verso qualcosa che avesse un senso e una sua attualità. Ne viene fuori, comunque, un mezzo spettacolare, tecnicamente all’avanguardia, sebbene un po’ troppo distante dall’originale. Aumenta la cubatura fino a 1000 cc, aumentano i pesi, diminuisce la guidabilità in fuoristrada e molti fan storici, le cui aspettative vengono deluse, diventano i primi detrattori dell’operazione. Ma arrivano anche molti fan nuovi e parte di quelli vecchi, alla fine, ne comprende l’evoluzione e la accetta per quello che è: una cosa inevitabile. Non sarà più vera avventura ma solo un simulacro di essa. Pazienza, sono i tempi che corrono, tempi più educati e fatti di comodità.

Seguiranno altri modelli, sempre più digitali, sempre più potenti, sempre più pesanti e leccati nell’estetica e sempre più distanti da quel concetto, da quell’urgenza da cui originò oltre trent’anni prima quel preciso modo di concepire la motocicletta. A loro volta saranno modelli pur sempre coerenti rispetto al mondo circostante, rispetto a cui non avrebbe alcun senso commerciale essere anacronistici. Alla fine, sono moto validissime che chiunque potrebbe comprare, di cui chiunque potrebbe godere, ma a cui probabilmente non in molti si legheranno a vita in un legame affettivo indissolubile come avvenuto per le prime RD.

3 commenti

  • https://youtu.be/Wdiy57IZL4o
    Questa è la mia recensione.
    Il paradosso (come da titolo della seconda traccia del disco) è che come se movono piano schiaffi.
    Se vanno nella direzione Slaughter je menano. Se ci si allontanano je menano uguale.
    A me comunque sto disco piace moltissimo. Sono d’accordo con chi sostiene sia il migliore post-reunion.

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  • È un disco degli ATG, molto personale, a volte addirittura intimista. Ha una produzione molto istituzionale, ma con troppi effetti speciali per i miei gusti. Gli ATG sono sempre stati bravi a creare impatto e atmosfere con gli strumenti classici, qui si affidano molto alle tastiere e a volte si sconfina nel prog e nell’avanguardia. Buona prova, da scoprire poco a poco

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  • Album bellissimo, preso nel verso giusto. Cioè, sapendo che Slaughter è alla sinistra di Satana.

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