Avere vent’anni: OPETH – Blackwater Park

Blackwater Park: inizio della fine o culmine di una carriera?
Solitamente quando si parla del disco più famoso degli Opeth non ci sono mai le mezze misure e ci si schiera sempre in una delle due fazioni.

Il quinto disco degli svedesi, vuoi anche per la produzione e l’apporto di Steven Wilson, rappresenta il primo, vero e deciso passo verso sonorità altre e più vicine al progressive, genere presente sin dal capolavoro Morningrise nel sound del gruppo, ma che qui comincia ad incidere anche a livello di struttura e composizione dei brani più marcatamente death. Un approccio che da alcuni, soprattutto in prospettiva, è stato visto come uno snaturamento del proprio sound che avrebbe perso di personalità, e da altri come lo zenit di un’organica evoluzione e la logica e più matura prosecuzione del discorso intrapreso con il precedente Still Life e il punto di arrivo di un sound che, nel bene o nel male, ha fatto scuola.

La verità, soprattutto sul lungo periodo, sta democraticamente nel mezzo. Perché Blackwater Park forse non sarà il miglior disco degli Opeth, ma resta un grandissimo disco capace – caratteristica non da poco – di risultare senza tempo, come si confà solo alle grandi opere.

Rispetto anche a dischi migliori usciti in quegli anni, infatti, Blackwater Park non suona né datato, né immediatamente riconducibile ad un determinato periodo temporale, riuscendo ad essere classico e contemporaneo al tempo stesso. Una dicotomia che, in un certo senso, ha caratterizzato l’intera carriera degli svedesi fino a Watershed (prima di diventare una stantia cover band capace di azzeccare un disco tutto sommato buono – Heritage – e qualche pezzo carino – Cusp of Eternity, Sorceress e Heart in Hand su tutti).

In tal senso il quartetto iniziale del disco è perfettamente rappresentativo di quanto osservato fino ad ora e, personalmente, la prima volta che ho avuto modo di ascoltarlo ho rischiato che la mascella mi cascasse a terra.

Seguivo già gli Opeth dal precedente Still Life e avevo avuto modo di ascoltare The Drapery Falls su un cd allegato ad una rivista (non ricordo se italiana o inglese, ma oggi direi Metal Hammer) e mi era esploso il cervello. Il giorno dell’uscita del disco, come accadeva di frequente, sono andato una mezz’ora prima dell’apertura dal mio negozio di fiducia (l’indimenticabile Iguana di Cosenza, che Odino lo abbia sempre in gloria!), ho bussato alla serranda e ho ascoltato insieme ad Antonio i primi pezzi del disco fumando una sigaretta sul divanetto del negozio. Inutile dire che non aspettai nemmeno la fine della a me già nota The Drapery Falls per tirare fuori i soldi dal portafogli (di The X Factor, ovviamente attaccato ad una catena da ferramenta come era in voga in quegli anni) e tornare a casa a spararmi il disco.

Sensazioni che permangono ancora oggi: The Leper Affinity è uno dei pezzi migliori mai scritti dal buon Mikael Åkerfeldt, Bleak, nonostante il growl, è forse il primo pezzo progressive a tutti gli effetti degli Opeth, Harvest è forse la Nothing Else Matters del metal svedese di quegli anni e The Drapery Falls è un capolavoro ed uno degli apici di Åkerfeldt come autore e interprete e di Wilson come produttore.

Ma tutto il disco è fondamentalmente impeccabile, e brani meno “citati” quali The Funeral Portrait e la bellissima titletrack sono altrettanto riusciti, e mostrano una band all’apice dell’affiatamento (e con uno straordinario Martin Lopez che ho sempre reputato fondamentale per la band in quegli anni).

Sul lungo periodo, gli aspetti non completamente a fuoco di Blackwater Park rispetto ai suoi predecessori sono probabilmente la sua “visione di insieme”, che risulta essere meno efficace dei suoi singoli pezzi, un’eccessiva ricerca di una perfezione formale che va a discapito dell’impatto di alcuni brani e, alla luce di altri vent’anni di ascolti sulle spalle, il fatto di non riuscire a “mascherare” determinate influenze e a interiorizzarle meglio nel sound del gruppo. Circostanze, quest’ultime, che caratterizzeranno anche i successivi dischi fino a Watershed i quali, comunque, al contrario di quanto una certa vulgata vorrebbe far credere, sono lavori assolutamente riusciti (in particolare l’acustico Damnation, ancor di più la sua versione live), pur essendo inferiori a quanto pubblicato in precedenza.

Tirando le somme, Blackwater Park è un disco importantissimo nella discografia degli Opeth e, pur non essendo la loro opera migliore, potrebbe essere quella più rappresentativa, e rimane un disco di altissimo livello che non ha perso un millesimo del suo fascino nel corso degli anni. (L’Azzeccagarbugli)

10 commenti

  • Sicuramente penso sia sbagliato giudicare blackwater park col senno di poi, alla luce di quello che diventeranno a partire dal noioso deliverance. All’epoca era semplicemente il quinto centro su cinque, e sfido chiunque a trovare tante altre band capaci di infilare un filotto del genere, molte poche a mio avviso. Rispetto agli esordi la band aveva già mutato pelle dai tempi di my arms your hearse, perdendo tutte le influenze folk e buttandosi pesantemente sul progressive e il protometal seventies, e qui raggiunge un pò l’apice di quello stile. Sentitevi the funeral portrait, con quel riffone sabbathiano capace di svitarti il collo o la title track. Personalmente, al livello di pezzi e produzione, ho sempre preferito il precedente still life ma si tratta di questioni di lana caprina. La grossa discriminante tra questo album ed i precedenti è che qui fecero il meritato botto, cosa che però non gli portò benissimo, anzi. Non so se a causa dell’ego crecente di akerfeldt, della lineup che andò lentamente a rotoli o cosa, ma cominciò subitissimamente un processo di normalizzazione che li portò dapprima a rubacchiare i riff ai morbid angel, poi le tastierine orientaleggianti da fiera internazionale del kebab e infine a scoprire le peggiori tendenze omosessuali degli ultimi cinquant’anni. Alla fine, di tutto ciò che poi ne seguirà, salvo giusto damnation, che alla fine è un bel trip. Im un mondo perfetto gli opeth avrebbero dovuto cessare di esistere con questo blackwater park, purtroppo invece alla capacità della gente di apprezzare la merda non esiste fine.

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  • vabbè ma che gli vogliamo dire a Blackwater Park…sono più affezionato a Still Life, anche se il mio cuore rimane a Morningrise, completamente sciolto dopo averli visto al Wacken 2001 rifare Black Rose Immortal per intero. Secondo me è un po’ il loro botto finale, poichè Damnation era carino ma mi fermavo sempre ai primi due brani, mentre Deliverance e Ghost Reveries non mi dicevano proprio niente, mentre il resto del mondo ci andava pazzo. Mi ricordo vagamente che Watershade non era malvagissimo, mentre gli opeth attuali mi scassano la minchia, pur essendo un amante del Prog classico

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  • Personalmente non sono lucido sugli Opeth. Come dice Bacc0 i primi 5 dischi (4 e mezzo direi) sono intoccabili.
    Credo di essere stato tra i primi esseri viventi in questo Paese del cazzo, governato da una tecnocrazia nel momento in cui scrivo, a scoprire gli Opeth (piccola digressione: spero non abbiate figli in età scolare, anzi: vi auguro di averne meno di due). Ho comprato Orchid il giorno in cui è uscito. E l’ho adorato fino allo sfinimento. L’ho scopato con le orecchie per anni.
    Poi quando Michele s’è fatto crescere quei baffetti di merda, sputando nel piatto dove aveva mangiato, vestendosi come Diego De la Vega prima della ritualità carnevalesca, ho cominciato a farmi venire della bile nera. E a bestemmiare dio ogni volta che incontro quelle cinque lettere con la O iniziale (non parlo di Bion, no, per chi cerca disambiguazioni da Wikipedia. Bruzzum, Bruttum, Sborzum, Conte Krishna, The day that beeeeeeeeeeeeeep killed porca madonna, bluzbum, bumspur, porcoddio).
    E niente, annassero affanculo. Loro, le piattaforme della DAD e la fregna che ve cieca.

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  • Non mi sono mai deciso su quale sia il mio preferito degli Opeth. Per anni ho detto Ghost Reveries, perché aveva una pacca, una genialità e varietà nelle composizioni, un mix di prog e death micidiale, come mai ne avevo sentiti. Però con gli anni il fascino è svanito, e sono tornato su Blackwater Park, che è obiettivamente il loro apice. Non è tutto perfetto (canzoni sempre prolisse) ma contiene almeno 3 capolavori immortali (fra cui la citata Drapery Falls, la loro canzone più bella di sempre, anch’io conosciuta da quel cd di Metal Hammer).

    Questo apice di classe e prog death non verrà mai eguagliato. Fondamentale la sperimentazione di Damnation, ma è un disco invecchiato in fretta, che però almeno ha permesso di concepire Ghost Reveries e quello che venne dopo. Watershed era già molto fuori fuoco, diviso fra due estremi, e da Heritage in poi Akerfeldt ha provato le sue cose preferite con risultati per me non eccelsi. Ma a forza di tentativi sono arrivati a In Cauda Venenum che è stupendo, il loro miglior disco dai tempi di Ghost Reveries, o forse proprio di Blackwater Park.

    Pochi cazzi: gli Opeth non hanno mai fatto un disco uguale all’altro, ed è prerogativa di pochi grandi: Rush, Fates Warning, Death. Che questo disco sia pressapoco a metà della loro discografia non è un caso, e fatico a comprendere come ci si possa trattenere dall’usare superlativi per parlarne.

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  • Volevo dirti che concordo su tutto, non è facile trovare in giro gente che ha amato i primi dischi e non sputa merda e vomito sul post Watershed, e in Cauda Venenum è senz’altro un grandissimo album.

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  • Da quando Akerfeldt ci è rimasto sotto con la storia del prog settantiano e coi suoni pastosi e poco distorti mi hanno fatto incazzare. Fino a Watershed per me solo capolavori o quasi. Poi il fatto di aver tolto il growl ha inciso e molto…adesso i loro dischi sono noiosi ma lo sono perchè si percepisce la spocchia di chi si crede capace di spaziare in stili che non gli appartengono. Smettila di registrare sti dischi col culo almeno…ficcacci una distrosione degna di questo nome, non il crunchettino anni 70… dio canaglia!

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  • Andrew Old and Wise

    Erano bravi, misteriosi, avvincenti, profondi. Ora , per me, quasi solo noiosi, ma sopratutto inutili. Qualcosina si salva in Heritage e in In Cauda Venenum, ma non basta a me per salvare loro. Naturalmente massimo rispetto per chi ama la loro svolta pseudo-prog, o comunque la si voglia chiamare. Alla fine è una questione di gusti, Però, Blackwater Park ….

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  • Il vertice assoluto degli Opeth quando ancora erano gli Opeth. Meno intensi, ma comunque godibilissimi, i tre successivi e poi il declino a partire da Watershed. Non c’era nessuno che suonava come loro. Adesso sono una copia sbiadita dei gruppi prog rock anni 60-70. Piuttosto che ascoltare gli ultimi lavori degli Opeth mi riascolto Forse le lucciole non si amano più dei Locanda delle fate, che ha più cazzimma e piu idee, ma è del 1977 però.

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