Il matrimonio fra la musica e l’orrore

Che cos’è l’Orrore? Non lo spavento che due belle fiche potranno mai procurare a Keanu Reeves fra una lavastoviglie e una passata di Swiffer Duster, non un montaggio caotico né il nostro pretesto per andare al cinema e saltare sulla poltrona, rovesciando pop corn dappertutto. L’Orrore è il razionale al cospetto dell’irrazionale, lo insegna Lovecraft, e non è più tale se viene a mancare una delle due cose. Che vi sorprenda o no, l’irrazionale non ha un peso specifico maggiore della sua controparte: in assenza di un emaciato Klaus Kinski, o di un Jonathan Harker avente il volto di Bruno Ganz, otterremmo un vuoto di eguale effetto ed eguali e disastrose conseguenze. Questa regola è stata portata avanti per decenni finché noi, il razionale, siamo diventati un qualcosa di divergente dal concetto stesso di razionalità o irrazionalità. A noi non frega più un cazzo di niente, è molto semplice. Non vi è più curiosità in senso generico, e, il giorno in cui qualcuno non riuscirà più a infilare una chiave in un cappuccio colorato di gomma per distinguerla dalle altre del mazzo, basterà cercare su Google e sono convinto che qualcuno avrà fatto il tutorial anche per quello. Un futuro a misura di scemo, con ogni soluzione a portata di mano. L’ignoto è scomparso a partire dalle cose più semplici, figuriamoci per quel che concerne il credere o il temere un qualcosa che va oltre la nostra capacità di sguardo, di percezione e immaginazione. È anche per questo che l’heavy metal, oggi, non fa più lo stesso effetto, perché i destinatari sono smaliziati e disincantati e gli artisti stessi si sentono un po’ meno artisti che allora. Non c’è una recita talmente appassionante da riuscire ad ipnotizzare tutti gli spettatori. C’è uso e consumo: potete pure continuare a ridicolizzare il concetto per cui chi suona da trent’anni faceva album migliori agli esordi, ma è esattamente così nel 90% dei casi e non lo è per questioni anagrafiche, o di palle che all’epoca giravano e ora stanno in mutande da cinquanta dollari. E’ per i motivi spiegati sopra.

L’Orrore, e il suo fratello minore heavy metal, non potranno sopravvivere facilmente a condizioni del genere.

Non è un caso che io sia particolarmente attratto dalla cultura pop degli anni Ottanta. Per metà ero disturbato dalla sua estetica prorompente, e di metà della musica uscita in quel periodo avrei più che volentieri fatto un generoso falò. Eppure, da piccolo, fu il videoclip di Thriller a mettermi per la prima volta di fronte a un dato di fatto: musica e cinema potevano andare a braccetto ed esprimere concetti adiacenti, come appunto l’Orrore. Al netto di Thriller, gli anni Ottanta restano un qualcosa che avrei voluto vivere e che da sempre tento di decifrare ed assorbire: l’altra metà della loro musica fu così meravigliosa che il concetto stesso di recuperarla, e non anticiparla, inseguirla o aspettarla, m’ha sempre messo addosso un certo disagio. La cosiddetta sensazione d’essere arrivato un po’ tardi al punto, o d’esserci arrivato mentre si iniziava a mettere un punto a tutto.

Se un bel giorno il mondo intorno a te inizia a citare e comprendere le cose che ti piacciono, vuol dire che le sta soltanto sfruttando: degli anni Ottanta ho decifrato questo, fra le tante cose da me recepite in modo giusto o inesatto.

Dicevo, qualche articolo fa, che il mondo circostante è popolato da avvoltoi, e che questi rapaci dal brutto aspetto non si fanno vedere in anticipo. Eppure noterai con certezza gli effetti delle loro mosse. Quando ero piccolo tutto il circo mediatico s’era interessato all’heavy metal, e paradossalmente furono proprio quegli avvoltoi a farmelo conoscere. Non voglio mettere in dubbio che qualche sporadico artista, o, entrando più in dettaglio, regista cinematografico o conduttore televisivo, abbiano voluto citare l’heavy metal per diletto o soddisfazione personale. Ma una cosa è certa: se negli anni Ottanta l’heavy metal era dappertutto, gli avvoltoi avevano sentito odore di carne ancora buona, e, finito una volta per tutte di volteggiarci sopra, le sarebbero piombati addosso con la rapidità e l’infamia tipici della competizione alimentare di un ecosistema instabile.

È così da sempre. Se l’heavy metal gode di buona salute il suo indicatore sarà probabilmente il cinema, o magari la televisione, ecosistemi che inviteranno qualche suo esponente al David Letterman show oppure al Roxy Bar di Red Ronnie. Ti rendi conto che tutto gira per il verso giusto quando gli altri si improvvisano interessati o peggio ancora fanatici del tuo prodotto, magari dopo aver effettuato una breve ricerca per estrapolarne due o tre domande di rito: su La7 ho assistito a uno speciale sul Nanga Parbat in cui il conduttore, che chiaramente non sapeva di cosa stava parlando, declinava la montagna pakistana in infinite maniere, per poi chiamare gli Otto Ottomila scalati da un alpinista, Ottomila Otto metri. Come se quello fosse salito per ottomila volta sul tetto di una palazzina a due o tre piani, insomma. Uno spazzacamino o un antennista, altro che pioniere dei ghiacci del Baltoro. Con la musica certe volte era esattamente così: i giornalisti dovevano adattarsi ad elogiare e decantare un qualcosa che la sera a cena negavano ai loro stessi figli. Lemmy Kilmister sfondava un muro portante con la sua motocicletta proprio per salvare il mondo da gentaglia del genere, in un videoclip che non dimenticherò mai.

È così da sempre, lo ripeto, e se un tempo le telecamere che contano inquadravano Dee Snider, oggi, in un presente distopico, scioglierebbero orde di giornalisti alla ricerca dell’ennesimo caso sociale da far finta di tutelare per il bene della comunità tutta. Stronzate, così come sono convinto che nel 1987 a nessuno fregasse un cazzo dell’heavy metal: era una gran vacca da mungere, e, nel mungerla, un sacco di persone sconosciute ne avrebbero beneficiato, avvicinandosi alle sue rigonfie mammelle. Sono gli effetti contrari che da sempre la società produce nell’indirizzare le cose: un predicatore sputtana gli Slayer alla TV e il giorno successivo cento persone vanno a informarsi su chi diavolo siano questi Slayer.

Pensateci bene: da quegli anni di costante impatto mediatico sarebbero nate le generazioni di metallari degli anni Novanta, ovvero tutti coloro che alla fine degli Ottanta non erano che dei teenager e che osservavano il mondo in modo meno filtrato, e disincantato, rispetto al sottoscritto. Erano l’elemento razionale di un sistema che tentava d’eliminare l’irrazionale per primo. E un giorno avreste avuto i Sentenced e gli Amorphis al negozio di dischi, cresciuti a fette biscottate e Fusi di Testa, o cose così.

Mi tocca dunque ringraziare quegli avvoltoi. Ricordo bene che a Scandicci c’era questo videonoleggio, oggi scomparso e abilmente rimpiazzato dall’ennesimo bazar cinese che fa tre clienti al giorno ma non chiude mai. La regola era: sotto ai dodici anni occorre una tessera a nome del genitore, che ti autorizzerà a noleggiare tutto il catalogo VM14 ma non la pornografia. Fu così che Antonella, ufficialmente, si portò a casa Non si sevizia un paperino. Il gestore era un bastardo, perché aveva strutturato il settore gialli/horror in una zona occulta del suo negozio, una sorta di angolo diedro con un lato occupato dai suddetti film e una seconda superficie, più accorciata, dominata da tette e capelli cotonati afferrati da braccia muscolose. Inoltre il settore horror era così ordinato: se all’epoca Jason va all’Inferno era l’ultimo film della saga di Venerdì 13, il gestore avrebbe messo tutti i suoi film uno di fianco all’altro, ordinati da sinistra verso destra. Una cosa apparentemente logica e allo stesso una vera e propria tortura: nell’interessarmi a una saga di otto o dieci film, una volta al cospetto delle ultime uscite mi sarei automaticamente ritrovato troppo a destra sulla parete dell’horror, e cioè, vicinissimo alle regine del porno degli anni Ottanta. Ecco spiegato perché gli ultimi film di una saga perdono sistematicamente d’interesse rispetto ai primi: perché confinano con la fica, o almeno da noi a Scandicci era così.

 

Conobbi l’heavy metal tramite i Dokken di Dream Warriors, era il 1993. Poi ebbi una cassettina con su gli Accept e altra roba, ma il primo impatto, quello inconsapevole ma pur sempre frontale, avvenne per mezzo dei Dokken. All’epoca la saga dedicata a Freddy Krueger e al suo orrendo maglione verde e rosso contava ben sei film, di cui avevo visto il primo, godibilissimo, e il secondo, una pellicola d’una noia mortale di cui forse ricordo la scena iniziale sullo scuolabus e quella in piscina, e nient’altro.

Al cospetto del terzo capitolo di Nightmare ebbi modo di confrontarmi col migliore dell’intera saga, sebbene il film numero quattro mantenesse un certo fascino. Il problema è che Freddy Krueger stava diventando man mano un’icona carica d’ironia e non più un villain a tutto tondo come l’avevamo ammirato in principio: non più l’irrazionale in carne e ossa ma un terreno da gioco su cui giocare a proprio piacimento, inserendo l’ironia e togliendo altro, o viceversa. Mi andò bene lo stesso, e una volta giunto al suo termine non riuscii a staccarmi mentalmente da quella sigla, da quel ritornello trascinante e da quelle chitarre. Chi lo sapeva? Ero al cospetto di George Lynch e Don Dokken, e all’epoca non bastava prendere il cellulare e digitare la dicitura OST. Se avevi fortuna arrivavi al termine dei titoli di coda e gli autori avevano lasciato sufficiente spazio ai brani che ne componevano la soundtrack. Altrimenti l’avresti riascoltata qualche anno più tardi e fatto due più due.

Il culmine del contatto fra heavy metal e Orrore fu Morte a 33 giri. È paradossale come molti film storici abbiano segnato la mia permanente predilezione per il cinema horror, e che i più irriverenti e iconici non fossero mai fra i migliori. Morte a 33 giri è un filmetto uscito nell’epoca giusta, e che personalmente amo incondizionatamente pur rimanendo di base un filmetto. Gene Simmons nella parte del discografico, Ozzy Osbourne in quella del predicatore che per una volta non se la sta prendendo contro l’ex voce dei Black Sabbath. L’obiettivo principe dei moralisti è un glamster che ci resta secco in un incendio e che venderà l’anima al diavolo, lasciando in eredità a un nerd il master del suo album di inediti: assoli a casaccio, messaggi al contrario, lì per lì mi ha ricordato lo stesso concetto di film che in Cigarette Burns di John Carpenter potevamo percepire nel fittizio La fin absolue du monde. Il resto è un tormentone di cliché: bulli contro nerd, la ragazza più carina che naturalmente si interessa al nerd, gli adulti che negano l’esistenza di ogni problema o minaccia come nel recente Stranger Things e uno scontro finale che dalle chitarre-spara-elettricità della festa scolastica si trasferirà niente meno che nello studio di registrazione. Certi film non invecchiano bene o male: trascendono dal farlo. Gli anni Ottanta hanno un estetica così definita perché in una significativa parte di sé stessi non fecero che immaginare il futuro, dai più celebri film di James Cameron passando per quell’Atto di forza che già sconfinava nel decennio a venire. Gli anni Ottanta sono una cosa a sé stante, e, nel bene e nel male, è più probabile che il futuro abbia tentato di ripercorrerne l’estetica – in una spigolosa Renault Megane come nel rilanciare il walkman, o in altre mille maniere che avete sott’occhio tutti i santi giorni – piuttosto che di renderli veramente invecchiati ai nostri occhi. Mai il futuro fu altrettanto ambito quanto negli anni Ottanta, da rappresentarlo in una maniera così grossolana e onnipresente come si farebbe con un miraggio da raggiungere a ogni costo e conseguenza.

Una volta che l’irrazionalità e l’immaginazione hanno perso quella spinta propulsiva, il connubio tra musica heavy metal e film si è ridotto a un lumicino: dimenticate l’effetto di perfetta simbiosi goduto in Phenomena, con un omicidio accompagnato dalle note di Flash of the Blade e Locomotive dei Motorhead non in sottofondo, bensì in assoluto primo piano, in un’ulteriore scena. Dimenticatele. Tralasciando per un attimo l’horror, avrete di certo guardato This is Spinal Tap e quell’Airheads dal cast semplicemente pazzesco. Il paragone fra quei titoli e il pulitissimo Rock Star con Mark Wahlberg descrive perfettamente il cambiamento dei tempi, e perché l’heavy metal può ancora essere grande, possente, efficace. Ma anche il fatto che oggi nient’altro stiamo facendo se non replicare quei tempi con un affanno mostruoso, una bieca ammissione di come il frenetico produci-per-consumare di oggi, naturale figlio di quello degli anni Ottanta che già le band d’allora criticavano, abbia sortito i suoi effetti sull’arte. Ci vorrebbe un po’ più di fantasia, certe volte, altrimenti un matrimonio del genere non avrebbe mai preso forma. (Marco Belardi)

5 commenti

  • A me basta guardare l’ umanità di facciabuco instacaz e compagnia per invocare all’ istante il meteorite di 65 milioni di anni fa, unica igiene possibile. Felice giornata a tutti.

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  • A proposito di Roxy Bar: ricordo che nel 94 Bruce Dickinson fu ospite alla trasmissione per suonare “Tears of the Dragon”. Arrivò stanchissimo, pallido e con due occhiaie da antologia, magari era anche ubriaco, non so. Non disse una parola, rise in faccia per due volte a Red Ronnie, prese una chitarra, cantò benissimo, alla fine della canzone se ne andò, sempre sghignazzando. Il sublime.

    Chiusa la parentesi storiografica, son parole sagge Belardi, anche se devo ammettere che non sono sicuro di aver seguito tutto il ragionamento. Cinema horror e Heavy Metal erano parte della cultura, oppure diciamo contro-cultura, giovanile degli anni Ottanta: erano due aspetti che si integravano bene e rispondevano a un bisogno di emozioni forti e proibite, molto sponsorizzate sia all’epoca che oggi. Gli avvoltoi ci sono sempre stati: negli anni Settanta si rivolgevano al Prog (all’epoca detto anche Pop) e alla Fusion (o Jazz-Rock), che si insinuavano un po’ dappertutto essendo la musica “colta” dei giovani e dei nuovi intellettuali e non è un caso che Dario Argento avesse usato i Goblin, e Di Leo gli Osanna, che venivano proprio da quella scena, tanto per fare due esempio. Negli anni Ottanta la gente era stanca dei Moog e delle canzoni lunghe, il nuovo scandalo era il Metal, che tra l’altro aveva maturato anche un’estetica molto aggressiva, a volte volutamente spaventosa, quindi si sposava molto di più con la sensibilità dell’epoca, in particolare quella horror. Dario Argento scelse gli Iron e i Motorhead, guardacaso. Di Leo scomparve, ma nel frattempo arrivarono tanti altri, come i meravigliosi Dokken. Virtuosismo, su Ace Ventura apparvero i Cannibal Corpse, ma lì eravamo già nei Novanta, comunque tanto per dire che prima o poi tutti si finisce sul mercato generalista.

    Comunque sia, io devo ancora capire se quel disincanto che percepisco sia dovuto alla mancanza di ignoto in senso lovecraftiano che dici, oppure se non lo si debba anche all’età e al fatto di averne viste un po’ di tutti i tipi, sia a livello di musica che di cinema.
    Però, mentre ho praticamente abbandonato il cinema, continuo ad ascoltare tantissimo Metal, sia d’epoca che nuovo.

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  • Si però cerchiamo pure di essere ottimisti…incominciamo a pensare al Metal anche un po come al Blues…i blusettari sono 100 anni che usano gli stessi giri ed accordi, ma alla fine mica gli sputano merda…che ci dobbiamo fare se ormai è tutto on line a portata di click? La scintilla creativa è andata affanculo nel 1988(data a caso) con gli ultimi capolavori del metal? Ma cazzo ce ne fotte l’ultima vera rivoluzione ormai consiste nello sbattercene e le palle e fruire cmq della musica anche se magari la sentiamo da un cel del cazzo con le cuffie scadenti…si perchè comunque sia il metal esiste ancora e anche se arranca per me tra 100 anni ci sarà ancora, anche se non oso immaginare con quali supporti e da chi sarà ascoltato…

    Cito da wikipedia:

    “La retrospettiva rosea è un fenomeno psicologico tale per cui le persone tendono a giudicare il passato in modo molto più positivo di quanto giudichino il presente”.

    Insomma la morale è vediamo il bicchiere mezzo pieno stringiamo i denti e cerchiamo di non scoraggiarci.

    P.S.
    Sento metal 1988 quindi ancora ai tempi delle cassette e dei primi cd.

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  • Questa non è male “Non vi è più curiosità in senso generico, e, il giorno in cui qualcuno non riuscirà più a infilare una chiave in un cappuccio colorato di gomma per distinguerla dalle altre del mazzo, basterà cercare su Google e sono convinto che qualcuno avrà fatto il tutorial anche per quello”

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