Avere cent’anni: replicanti metallari da un futuro distopico

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Siamo agli inizi del ventiduesimo secolo. L’heavy metal è estinto, o, peggio, ridotto alla stregua di un lussuoso marchio d’abbigliamento da mostrare agli amici. Le sale prova hanno ora l’aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la scena è in qualche modo sopravvissuta.

La baracca è tenuta artificiosamente in vita da un colosso chiamato La Corporazione, con sede in una metropoli uguale alle altre e dominata da torrioni industriali che svettano su arterie inondate di luci tremolanti. Per mezzo di androidi ricostruiti in laboratorio, entità storiche come Slayer, Dream Theater o Metallica rivivranno agli occhi dei fan anziché nella memoria dei loro eredi biologici, sebbene sia stato necessario adeguarli ai canoni di conformismo del 2120. La Corporazione ha tuttavia un problema: l’ultima generazione di queste repliche del passato è in grado di sviluppare sentimenti complessi e di divergere dai programmi stabiliti, in modo senziente e perciò pericoloso.

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Negli anni della cosiddetta modernità si settarono standard dai quali ripartire senza che il genere intero fosse percepito come un promotore di sommossa sociale, il cui bersaglio poteva collocarsi in ambiti religiosi, sociali o politici. Grazie a capisaldi come The Gathering osservammo un nuovo metodo di concepimento della medesima musica, lo osservarono i metallari e lo presero come traccia da seguire. Arch Enemy e Lacuna Coil divennero indiscutibili gruppi di punta, e, al contempo, Sabaton ed Amon Amarth erano ora destinati a guidare i festival europei al suon di show pirotecnici. Gli In Flames si confermarono un punto di riferimento a cui rifarsi: un tempo avremmo fatto il nome dei Carcass, ma c’erano troppa ironia, sarcasmo e satira sociale nei loro testi. L’America si crogiolava nello sterile fragore del suo metalcore diretto a un pubblico giovanile, e un po’ alla volta perdemmo i Grandi Antichi di quella musica: Chuck Schuldiner, Dimebag Darrell, Lemmy Kilmister, i morti prematuri e infine quelli per raggiunta vecchiaia. La merda aveva ora il via libera per dilagare.

La Corporazione si assicurò che il metal ripartisse dai suoi ultimi decenni di commercializzazione, e mai dai cosiddetti anni di gloria. Nei sintetici che si fabbricarono in gran numero non furono impiantate le sembianze di Mark Shelton o la capacità di riprodurre un vecchio album degli Angel Witch. Il metal rinacque dal Duemila per evitare che per mezzo di esso venissero trasmessi l’alcolismo, la deviazione, l’anticonformismo; ma anche fiere del disco, fanzine, pompe nei cessi o più probabilmente entrare nei cessi per appiccicare l’adesivo di Metal Skunk, e infine le bevute omaggio annacquate e le successive che eri costretto a comperare per sentirti un minimo alticcio. Macchinate in cinque in una Fiat Uno per andare a vedere gli Slayer a più di trecento chilometri di distanza, non furono affatto contemplate. Il progetto incentivava il merchandising, concerti virtuali sotto forma di ologramma, attori autorizzati o androidi recitanti, ma anche successivi meet’n’greet con la possibilità di abbracciare i propri beniamini e token che includevano il vinile autografato digitalmente. E un’ultima ma importante cosa. Agli androidi fu impedito di bestemmiare, categoricamente. Erano abilitati a replicare ogni frase tipica delle celebrità d’un tempo, ma non potevano in alcun modo bestemmiare. La sensazionale trovata della Corporazione fu di disattivare istantaneamente la replica nel caso essa avesse affermato, o anche solo ascoltato, un’imprecazione verso qualsiasi Dio: nessun fan ne avrebbe così lanciata una, pena la cessazione del servizio, e neanche il sintetico, poiché avrebbe pagato un prezzo altissimo. L’operatività.

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Nel 2118 alcuni di loro presero a suonare una musica divergente da quella imposta dai canoni della Corporazione: il post atmospherical funeral doom con tinte black metal dalla frangia che mette le cime dolomitiche in copertina. Preso atto della reazione entusiastica da parte del pubblico, le autorità dovettero intervenire ritirando tempestivamente ogni elemento mal funzionante. Era in programma la riproposizione per intero di Helix degli Amaranthe e gli androidi avevano optato per altro, in piena autonomia. Sugli autobus fu riproposta per alcuni giorni una versione rivisitata del Monsters Of Rock 1992, con un logo adeguato e il bill privato della dicitura Black Sabbath, poiché inneggiante all’esoterismo ed al razzismo. Al posto degli autori di Paranoid trovò luogo il solo nome di Tony Iommi. La sua chitarra originale fu mantenuta intatta nelle immagini in proiezione, in quanto la dicitura Diavoletto consisteva in un vezzeggiativo che allietò le alte sfere della Corporazione, suscitando ilarità in ogni ufficio del Palazzo.

Con la massima urgenza fu convocato in sede uno specialista, Rick Diahan, facente parte di una divisione sotterranea e poco chiacchierata della Corporazione. Quelli come lui erano chiamati in causa solo nei rari casi in cui le autorità, da sole, non avrebbero potuto rintracciare e ritirare uno o più individui non idonei alle mansioni. Un assistente lo accompagnò negli uffici riservati alle alte sfere, dove Diahan venne scrupolosamente messo al corrente del problema. Non gli fu comunicato perché scelsero proprio lui, ma seppe che un elemento riottoso era stato sottoposto al test oculare ed aveva riconosciuto alcuni fotogrammi subliminali di un video proibito dei Cannibal Corpse. Fu ritirato all’istante, ma riuscì a compromettere fisicamente un impiegato durante le operazioni di cattura. Il compito di Rick Diahan era ora quello di raggiungere l’area concerti e mettere fine all’operato degli ultimi riottosi esistenti in circolazione. Il silenzioso assistente lasciò al suo fianco un piccolo origami ritraente un caprone, e fece ritorno al veicolo col quale lo aveva accompagnato alla sede.

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Sembrava tutto in regola. Gli androidi eseguivano So Far Away degli Avenged Sevenfold a una folla impazzita, lanciando petali di rose nell’area dedicata al sesso femminile e di tulipano in quella riservata ai maschi. Un ologramma volgeva il microfono al pubblico, preso a intonare le struggenti parole di Matt Sanders e a darsi il cambio con i nuovi arrivi. Il concerto era un rito di passaggio come molte altre perle della quotidianità: la lettura di un e-book sui mezzi pubblici, o la centesima consultazione giornaliera del supporto multimediale. Il consumatore pagava per sostare a tempo in un’area grande quanto il parcheggio di un piccolo centro commerciale, e al termine della visione veniva rimpiazzato da altri fortunati fanatici, pronti per assistere a loro volta a uno spezzone di concerto. Creare un’area sufficientemente grande per tutti avrebbe significato ottimizzare di meno gli introiti, aggregare e far ritornare in auge concetti poco limpidi come la fratellanza, i Manowar oppure le sbronze colossali. E la Corporazione, questo, non poteva affatto permetterlo. Sarebbe bastato un altro elemento difettoso per far precipitare il frutto d’ogni sforzo certosino.

Rick Diahan terminò la sua prima giornata di ricerche e riposò, sebbene non si sentisse mai realmente stanco. Sognò un caprone che correva libero in un bosco, si svegliò di soprassalto e iniziò a ingrandire e ispezionare alcuni fotogrammi scattati al concerto. Fu allora che bussarono. Venne scaraventato sul pavimento da un calcio diretto al costato, il sintetico aveva le sembianze di John Tardy e gli lanciava ferali ululati di ammonimento, avanzando passo dopo passo. Stava per assalirlo una seconda volta, probabilmente quella fatale, quando chiese: “Cacciatore di androidi, chi sei?”

“Diahan.”

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John Tardy si spense all’istante, capitolando sul pavimento proprio di fianco al suo aguzzino.

Fu sottoposto ad alcune medicazioni di routine ed era dubbioso, come se qualcosa di prossimo alla soluzione fosse a portata di mano, ma non riuscisse a decifrare cosa. Inoltre c’era quel caprone che lo tormentava, e in tasca ne custodiva ancora l’origami. Tornò all’area concerti, esibendo il pass che gli permetteva di accedere sotto una fitta coltre di petali bagnati dalla pioviggine. Mentre la replica di Alissa United-Colors Gluz inneggiava alla lotta contro le diseguaglianze prima d’introdurre The Immortal, e di duettare con l’ologramma di Johan Liiva in un evento che gli anni Duemila meritarono di conoscere, ma non di apprezzare, alcuni partecipanti individuarono Rick e si allontanarono a passo svelto. Percorsero la zona meet’n’greet, la vasta area consumazioni, e uscirono sotto una pioggia che sembrava peggiorare minuto dopo minuto.

Rick Diahan li inseguì. Si erano sparpagliati per un intero isolato, ma il biondo alla Billy Idol riuscì a tenerlo d’occhio fino al cornicione superiore di un palazzo, un luogo poco sicuro a causa delle insistenti precipitazioni e degli scivolosi escrementi, direi onnipresenti, emessi dalla colomba di Grand Declaration of War dei Mayhem. Lo mise in un angolo: l’androide poteva scegliere se precipitare a pochi metri da quel palco, stampando l’Orrore della morte in occhi che non potevano certo conoscerla attraverso l’heavy metal, o rimanere lì a confrontarsi con il nemico. E decise di rivolgergli la parola.

Io ne ho viste cose che voi metallari non potreste immaginarvi: album sinfonici dei Blind Guardian in fiamme nei cassonetti della plastica, e ho visto le Onde Theta balenare nel buio vicino alle porte di casa Bargone. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come petali nella pioggia durante lo show degli Arch Enemy. È tempo di morire, diahane.

(Marco Belardi)

 

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