OZZY OSBOURNE – Ordinary Man

ordinary

Marco Belardi: L’ottimismo su Ordinary Man l’ho già esternato in uno dei miei articoli più pessimisti di sempre. Se avete un sacco di tempo a disposizione o vi siete messi in autoquarantena, vi rimando alla sua lettura. Qui cercherò di essere più rapido che posso.

La differenza tra Ordinary Man e le mezze porcate di Ozzy Osbourne a cavallo tra Down to Earth e i giorni nostri risiede in due cose. Primo, a distanza di uno o due mesi dall’ascolto di Under the Graveyard riuscivo ancora a ricordarmela. Viceversa non ricordo niente dei suoi anni discograficamente più bui, fuorché questa cover, talmente brutta da risultare indimenticabile, che incise con i Coal Chamber giusto un po’ prima di pubblicare Down to Earth.

In secondo luogo, la bussola della paraculaggine ci indica un diverso punto cardinale. Archiviato il voler risultare ad ogni costo al passo con i tempi, Ozzy Osbourne arriva a Ordinary Man con un processo di razionalizzazione riassumibile in reunion, disco e tour d’addio dei Black Sabbath. 13 e il conseguente tour hanno urlato a gran voce a Ozzy Osbourne che cosa volesse la gente da lui: l’alternative metal è mezzo decomposto, e con esso l’infinita banda di scemi che si portava al guinzaglio agli Ozzfest. I Black Sabbath ne escono ridimensionati a fenomeno strettamente anni Settanta, e dunque saldamente ancorati alla figura del madman. Per capirci, durante quel tour facevano pure Dirty Women da Technical Ecstasy. Clamore mediatico a parte, Ordinary Man farà parlare di sé come di un album che ripesca qualcosina di quegli anni, ma con lo scopo di riportarli all’attualità. Ben si guarda dal ricopiare ancora l’operato dei giovani in ambito mainstream ed heavy metal: sarebbe come spararsi una fucilata sulle palle, e lui i suoi acciacchi già ce li ha.

Ordinary Man è un album moderno e pieno di buone canzoni, ed è questo che io pretendo da Ozzy: essere sfacciato, radiofonico, con gli alright now di Sweet Leaf in apertura e una produzione da primissima pagina. È un disco che richiamerà in voga l’usanza, tipicamente adolescenziale, di lamentarsi d’un album addobbandolo col termine “commerciale”. Io da Ozzy Osbourne pretendo una musica “commerciabile”, e mi basta che sia la sua. Ha portato l’heavy metal dapprima a vedere la luce, poi in cima al mondo con Paranoid ed ancora alla forma irresistibile di Master of Reality, e, quando la simbiosi con Tony Iommi è venuta a mancare, ha ripreso a partorire successi.

Ordinary Man è il suo disco più centrato dopo l’exploit di No More Tears, in un testa a testa con Ozzmosis che non stravince ma nemmeno perde. Poco mi importa se non c’è Zakk Wylde, ci sono un botto di canzoni e non sto a elencarvele. Al suo posto troviamo Andrew Watt, un tuttofare impegnato a suonare e produrre dischi per mezzo mondo, oltre a Duff McKagan dai Guns n’Roses e Chad Smith dai Red Hot Chili Peppers. Delle ulteriori collaborazioni avrete già sentito parlare e riparlare: lascia il segno quella con Post Malone, e c’è un perché. Non sono ostile alla tremenda Take What You Want perché sposta il tutto su un altro piano o genere musicale. Gli sono ostile perché un album merita di mantenere una minima linea di coerenza, che, con quel pezzo, si interrompe in modo inevitabile. Peccato, ma è pur sempre un dettaglio.

Charles: Ciò che penso dei dischi solisti di Ozzy è presto riassumibile, quindi cercherò di essere più rapido che posso (Belardi, guarda come si fa): Osbourne da solo ha l’unico merito di rendere ulteriormente palese la grandezza di Tony Iommi, senza il contributo del quale la presenza del madman risulta fuori luogo e pacchiana in qualsiasi disco che non sia un disco dei Black Sabbath o che non suoni come un disco dei Black Sabbath. Quindi è proprio il concetto di fondo a essere sbagliato. Ma se si volesse comunque dare un senso all’Ozzy solista nel 2020 sarebbe opportuno farsi sostenere da uno che suona come Tony Iommi e che conosce bene il soggetto in questione, tipo Zakk Wylde, che però pure ‘sta volta è stato tenuto fuori, tra l’altro giustificandone l’assenza con una supercazzola risibile. Invece, in questa kermesse di gente presa a caso, fanno la loro comparsa artisti del calibro di Andrew Watt (e chi cazz’è?), il fondamentale bassista dei Guns n’Roses ed altri personaggi inutili di questa risma. Il toscano, inoltre, non lo cita perché si vergogna, ma qui dentro ci canta pure Elton John, mannaggia la puttana: nella title track, attenzione, non in una bonus track di qualche extended version ultra rare goldenbox salcazzo per gonzi. Il disco è insostenibile dall’inizio alla fine (forse solo in Under the Graveyard si riesce a non sbadigliare), è brutto e si aggiunge alla restante sequela di porcate che ha fatto Ozzy da solista.

14 commenti

  • Ascoltato di sfuggita a casa di un mio amico sabato scorso, veramente una stronzata.

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  • Musicalmente Ozzy non mi ha mai detto un cazzo, lo considero l’ Adriano Celentano del metal, pero’ mi è simpatico quindi se continua a fare dischi vuol dire che sta bene e questo mi fa piacere.

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  • La prima canzone e under the graveyard ok, il resto una sequenza di filler. Everything dies.

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  • per la prima volta da quando leggo questo blog di “uplifting gormandizers” non sono d’accordo col Charles, in particolare su due punti:

    1. l’assenza di Zakk. Premetto che da fan talebano ed integralista del Madman, ho venerato il chitarrista barbuto sin dai tempi “sbarbati” di No Rest For The Wicked. Però diciamocelo, i vortici di distorsioni e le mitragliate di armonici che il nostro deve infilare in mezzo ad ogni accordo sarà anche un marchio di fabbrica, ma a me ha anche rotto i coglioni.
    Estromettere Zakk secondo me è stato necessario per rimettere Ozzy al centro del suo progetto solista e dare credibilità ad un disco che, nel 2020, non può suonare come l’ennesiva cover BLS.

    2. come saprete, Elton John e Ozzy sono cari amici di vecchia data. Il fatto di vederli collaborare sulla canzone che da il titolo all’album, visto il significato di quella canzone e considerando il momento della carriera dei due, lo trovo commovente, intimo e dannatamente potente.

    3. starò invecchiando ma a parer mio 1000 volte meglio un disco così che un album che scimmiotta i fasti dei Sabbath con Tony o i BLS di Zakk

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  • Dando per scontato che tutto il post- “No more tears” fa acqua da tutte le parti, mi stupisco nel sentire quanto poco valutiate l’opera del Madman solista i primi due sono una pietra miliare del genere comunque la pensiate. “La presenza del madman risulta fuori luogo e pacchiana in qualsiasi disco che non sia un disco dei Black Sabbath o che non suoni come un disco dei Black Sabbath” Davvero?!

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  • Dunque, lasciatevi consigliare da uno più anziano: non si può parlare male di Ozzy, è vietato dal regolamento del Metal, che è inciso su una lastra di acciaio custodita nella tavernetta di DeMaio. Beh, siete anche liberi di farlo, ma poi vi pentite.

    Venendo al disco in questione: irrilevante, si salva giusto la prima (Straight to Hell), tutte le altre sono delle lagne insopportabili. Non è nemmeno metal, forse vanno bene per qualche nuova puntata di Supernatural, ma per altro non saprei, io di certo non le ascolto più; la roba lenta non è metal, ragazzi.
    Il fatto che Elton John sia amico di Ozzy non significa che per forza debbano suonare insieme, il risultato è deludente per entrambi e in effetti è stata una mezza trovata della Epic, senza gusto né morale.

    Questo tipo di dischi servono per farci sognare, per illuderci che, in qualche modo, gli eroi della nostra infanzia e dei nostri giorni d’oro ci siano ancora e che tutto possa continuare come è sempre stato, ma sappiamo bene che non è così.

    Ecco, ho parlato male dell’ultimo disco di Ozzy e me ne pento già.

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  • Il disco è ottimo e abbondante. C’è dei pezzi bellissimi dentro (cfr. Emilio Pinzani, 1987) e suona fresco. Il verso «I’ll make you scream/I’ll make you defecate» vale intere discografie di black metal band scandinave. E «Scary little green man» rischia di entrare in testa e uscirne con qualche difficoltà. Il fatto che ci sia scritto Ozzy Osbourne in copertina è certamente un vantaggio (ammetto, dolendomene: se fosse stato il disco di uno sconosciuto forse non gli avrei dedicato così tanta attenzione negli ascolti). Ma nello stesso tempo quel nome è un fardello terrificante che zavorra il disco, visto che si porta dietro una Storia e una Carriera che riassume e abbraccia tutto il genere. Quindi, in fondo, i due fattori si annullano e quasi certamente tornerò ad ascoltarlo e senza dubbio inserirò alcuni pezzi nelle mie playlist. Se un me stesso di 15 si imbattesse in Ordinary Man rimarrebbe certamente incuriosito dalla musica di questo anziano signore (e l’apprezzerebbe), un po’ come successe nel 1986 quando mi imbattei in John Michael Osbourne, con The ultimate sin, non esattamente un capolavoro, ma un buon disco che ha tanto in comune con quello uscito adesso.

    Piccole pagelle
    Duff 8: prestazione di straordinaria continuità e spessore sulla fascia
    Slash 5: svogliato e poco brillante
    Chad Smith 6,5: aggiunge poco di suo, ma è dura criticarne il lavoro
    Andrew Watt 7: di lotta e di governo, brilla nelle pennate e piace nella produzione

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  • Mi fa strano che Belardi, solitamente attentissimo ai batteristi, non si sia soffermato su Chad Smith, paragonandone la prestazione con altre, magari in generi affini a quello di questo disco (penso a “III” dei Chickenfoot, che è impietoso confrontare con questo album; unsuccessfully coping with the natural beauty of infidelity).

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  • Sergente Kabukiman

    Ho sentito pochi brani quindi non posso dare giudizi sul disco, ma su una cosa sono sicuro: queste canzoni mi lasciano vuoto. Alle mie orecchie si sente che sono scritte da un produttore, il che andrebbe pure bene se non fosse che mi sembra tutto troppo patinato e scritto per funzionare a tavolino, non lo so spiegare meglio, pure la voce di Ozzy mi sembra stucchevole e incollata solo per mettere il nome OZZY OSBOURNE in copertina.
    Per gli ospiti mi viene da dire che Smith si conferma un batterista ottimo, Elton John dai, come si fa a dire male di Sir Elton? Slash di contro si conferma il solito vuoto spinto, inutile e banale come sempre.

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  • Solo a me fa schifo pure under the graveyard? Veramente non capisco l’ostinazione dei gruppi che hanno pur scritto le pagine più belle del metal a tirare fuori dischi che quando va bene sono mediocri, cioè, era meglio ricordarsi Ozzy per down to earth ( che secondo me, ha un paio di pezzi che il 90% dei gruppi dello stesso genere, manco nei sogni erotici più bagnati… ) piuttosto che, sempre a mio avviso tutto quello che ha fatto dopo. Non capisco proprio il motivo di dischi simili…cioè boh…

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  • Una porcata tremenda. Si salva solo la Titletrack molto bella. Il resto prodotto male, Ozzy con un botto di autotune, e ospitate varie che non hanno senso. Disco buono per i 15enni che si avvicinano al metal.

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