Splendidi quarantenni: IRON MAIDEN – Running Free

L’East End

Credo si possa considerare un pezzo autobiografico, anche se, ovviamente, non ho mai trascorso nemmeno una notte in un carcere di Los Angeles. Ma ho visto comunque le mura di qualche prigione londinese. La canzone parla di avere sedici anni, vivere da selvaggi e correre liberi. L’ispirazione arriva dal mio passato skinhead e la cosa strepitosa è che su disco suona proprio in questo modo. Trasuda energia anche oggi, tanti anni dopo. Così lo definiva Paul Di’Anno.

La periferia di Londra, gli skinhead, il reggae, il prog rock, il calcio. Non è affatto intuitivo immaginare come tutte queste cose abbiano potuto fondersi insieme e divenire in qualche modo significative per gli Iron Maiden. È noto, almeno a chi bazzica le biografie delle band, che gli artisti più influenti della storia siano spesso accomunati da gusti musicali terribili, quantomeno discutibili, o comunque non corrispondenti a ciò che ci si aspetterebbe. Steve Harris, per esempio, ha sempre sostenuto di essere un grande fan dei Genesis e che il suo disco preferito di ogni tempo è Foxtrot. Una certa tendenza alla complicazione della forma canzone più classicamente NWOBHM nei Maiden è evidente fin da subito, più evidente ancora sarà l’influenza del prog rock nella fase matura della band, quindi ci può stare. Ma il reggae? Il reggae era la musica preferita degli skin inglesi degli anni ’70: Ricordo bene cosa ho preso a quattordici anni, il mio primo disco acquistato: una compilation di successi reggae come Monkey Spanner di Dave and Ansel Collins, Big Five di Judge Dread e altre cose simili. L’obiettivo era sempre quello: non lasciarsi discriminare, seguire la moda e far colpo sulle tipe. Eravamo tutti skinhead, ma nessuno di fatto faceva parte di quel movimento. Harris ne parla senza particolare vergogna o nostalgia, perché per lui si trattava più di una questione di moda che altro. Le camicie Ben Sherman, il crombie o il giubbotto Harrington, nero con l’interno in tartan, i Levi’s Sta-Prest, tutto qui. Il serafico Dave Murray, invece, viveva la cosa in modo abbastanza diverso: Rasoio ad alzo uno, scarponi Doc Martens e bretelle. Facevo sul serio. Tutti i ragazzi della mia età facevano parte di quel movimento. E se non appartenevi a una gang la vita poteva diventare un inferno, non ti lasciavano mai in pace. Prima di mettere i pantaloni a zampa di elefante, passare dai ritmi in levare ai Black Sabbath e indossare i crocioni di legno al collo, anche lui ha trascorso qualche anno tra zuffe serali e domeniche violente: L’ho capito a una partita dell’Arsenal, c’erano state risse spaventose, scontri da brivido. Così ho pensato: ne ho abbastanza di questo mondo.

Il leader

Si è da tempo radicata la comune tendenza a criticare Steve Harris un po’ a priori o a parlarne con superficialità, lo facciamo tutti o lo abbiamo fatto tutti almeno una volta nella vita. Lungi dal voler fare una apologia di ‘Arry, le cui pecche da leader negli ultimi anni sono evidentissime a tutti, bisogna inquadrare il suo operato in un lasso temporale che va dagli anni ‘70 ad oggi. Come in un edificio la parte più importante e critica è la progettazione e la costruzione delle fondamenta, penso che i dieci anni che vanno dal ’70 al ’79 siano stati, per la formazione e il futuro della band, molto più importanti dei successivi due lustri, quelli che vanno da Iron Maiden a Seventh Son of a Seventh Son e che sono, a ragione, universalmente identificati come gli anni migliori. Innanzitutto, bisogna riconoscere a Steve il pregio di aver sempre tenuto fede a un sogno di grandezza, una vera e propria ossessione che probabilmente ha origini più profonde del desiderio di affermazione come band più importante e influente del mondo, al pari di The Beatles, Led Zeppelin e Black Sabbath, ma che sfocia da una originaria voglia di rivalsa e di scalata sociale per tirarsi fuori dalla povertà materiale e culturale dei sobborghi londinesi in cui era cresciuto. Questa ferma determinazione lo portò, in quegli anni, a gettar via membri della band come fossero fazzoletti sporchi, a imporre le sue decisioni sulla vita degli altri, a partire da Doug Sampson e Dennis Stratton, per finire con Paul Di’Anno e Clive Burr, procedendo come un rullo compressore che va avanti schiacciando tutto, spinto dall’unica motivazione concepibile: il successo.

Le prime vittime ad essere schiacciate inesorabilmente furono gli “Iron Maiden”, o meglio (The Original) Iron Maiden, una band dell’Essex attiva da metà anni ’60 (autori di un proto-doom le cui intuizioni non sfuggiranno alla Rise Above di Lee Dorrian, che ne recupererà la memoria), che ebbe la sfortunata coincidenza di scegliere qualche anno prima un nome che il signor Harris stesso avrebbe scelto qualche anno dopo e che, conseguentemente al suo obiettivo, avrebbe schiacciato, triturato, schiantato, umiliato, cancellato dalla faccia della Terra. Fu un plagio? Nessuno può saperlo, a parte il diretto interessato (che pure copiò la scritta con le punte dagli Steel Mill, quindi il dubbio è lecito). Dopo l’uscita del singolo Running Free (edito dalla EMI e quindi distribuito e pubblicizzato enormemente meglio di quel prodotto decisamente homemade che fu The Soundhouse Tapes, la cui pubblicazione, però, fu principalmente un omaggio ai fan dell’epoca più fedeli), Harris andava dicendo qualcosa di simile al ci hanno detto che esiste una band che reclama diritti esclusivi sul nome, ma chissenefrega, gli Iron Maiden siamo noi e ‘fanculo tutti gli altri. Come a voler dire che il mondo è un posto duro e ci si deve fare avanti a spintoni e cazzotti in faccia, nessun permesso o per favore, nessun tatto o savoir-faire. Del resto, nei burrascosi anni dell’adolescenza di Harris e soci numerosi sono i riferimenti riguardanti il modo rissoso di impegnare le giornate. L’East End era pieno di tipi pericolosi, diceva Harris, e bisognava far parte di una gang e sapersi difendere. Far sparire Paul Cairns dalla line up delle primissime registrazioni, relegandolo a mero fantasma, prendere via via le distanze da personaggi ritenuti poco affidabili, far ballare agli uomini del mixer l’infinito valzer delle sostituzioni, queste e tante altre evidenze dell’incontenibile risolutezza. Rispetto a questi ultimi, ricorda Harris che durante le registrazioni di Running Free e degli altri pezzi che andranno a comporre Iron Maiden, cambiò molti ingegneri del suono in corso d’opera perché nessuno si dimostrava all’altezza o aveva capito bene quale dovesse essere il suono dei Maiden. Li trattava da fantocci e li bypassava totalmente. Per fortuna che il fonico era uno che ci sapeva fare. Lui, Steve, le idee le aveva ben chiare, e fu proprio quando si affidò ai professionisti (Nigel Hewitt e Martin Birch) che le cose si misero male. Killers: memorabile in negativo la qualità della registrazione di quell’album che nei fatti rimane un disco potenzialmente ancora più devastante di ciò che è stato, e questo anche per colpa di un Paul Di’Anno già agli sgoccioli. Ci voleva un nuovo corso, una nuova line up, il numero della Bestia. Se ne parlerà a tempo debito, ora torniamo a noi.

All’epoca Paul era ancora il vero capocannoniere: forte, coinvolgente dal vivo, istintivo, erano tutti innamorati di lui dentro e fuori dalla band; era la restante formazione a necessitare un urgente completamento, perché il successo che Steve rincorreva non aspettava: occorreva dare un sostegno a Murray, il quale era sì capace di tenere da solo qualsiasi piccolo palco la band calcasse in quel periodo, ma era palese pure che quella era una situazione che non poteva durare all’infinito, soprattutto in considerazione della ostinata ricerca di uno “spazio vitale” nel mondo del metal. E poi c’era il discorso batteria da affrontare. Il problema chitarre fu risolto subito: prendere dentro Dennis Stratton fu affare facile e veloce, troppo veloce. Passò pochissimo tempo da quell’incontro fortuito sull’autobus per Stratford con la ragazza di Steve (Lorraine, futura moglie e all’epoca amica della tipa che Stratton frequentava), la quale gli disse Oh, hai ricevuto il telegramma di Smallwood?, al giorno dell’audizione negli Hollywood Studios di Clacton dove di fatto Dennis non suonò neanche una nota, perché Harris aveva già visto molte volte come si muovesse sul palco del Bridgehouse di Canning Town con la sua band e si era convinto fosse il chitarrista giusto, per cui gli disse di imparare in fretta qualche pezzo che dovevano registrare un disco. Era dentro. In realtà, poi Steve ebbe modo di pentirsene: Onestamente, avevamo così tanta fretta di trovare qualcuno che gli abbiamo offerto il posto senza pensarci due volte. Ed è questa la ragione per cui poi abbiamo avuto problemi con Dennis. Era certamente un tipo simpatico, ma non aveva la nostra età e, soprattutto, non aveva i nostri stessi gusti in fatto di musica e altro. Ma non ce ne siamo accorti subito. Anzi, pensavamo fosse okay solo perché in grado di suonare la chitarra e perché veniva dalle nostre parti. Dunque, la fretta, la stessa cattiva consigliera che lo porterà in seguito a fare altre scelte sbagliate sempre nel tempismo – oltre che a volte nel merito – come ad esempio cacciare Clive Burr, prender dentro Blaze Bayley, cacciarlo dopo poco e richiamare Bruce. Stratton, per chiudere il capitolo, in realtà non era molto più grande di loro, sebbene fosse sposato e avesse già un figlio, ma era più incline alla melodia e trovava i pezzi dei Maiden imprevedibili, troppi cambi di tempo. Gli diceva Paul: Se pensi Prowler sia difficile, aspetta di vedere Phantom of the Opera. L’accusa che gli venne poi mossa era di non essere al cento per cento heavy metal come attitudine.

Non meno rapida fu la decisione di risolvere il problema del batterista, facendo fuori Doug Sampson. Fisicamente Dougie non era in grado di reggere, diceva Steve: i frequenti concerti in locali fumosi, il sudore, gli spifferi notturni nel Green Goddess (il furgone con cui si muoveva la band), i pasti arrangiati, le scarse ore di sonno, tutto questo lo stava sfinendo. Suonava male e svogliatamente, era sempre stanco e si lamentava di continuo. Era evidente che Doug non fosse in grado di sostenere i ritmi imposti dalla macchina da guerra che Harris aveva messo in moto, come era evidente che non avesse il fisico per superare i sacrifici che il sogno di grandezza esigeva da tutti, nessuno escluso. Un giorno lo presero da parte e gli dissero semplicemente che poteva bastare. I due si conoscevano dal 1974, avevano mosso i primi passi insieme negli Smiler, avevano inciso i Soundhouse Tapes e le BBC Sessions, avevano firmato insieme il contratto con la EMI e finiva tutto così. Dopo qualche anno, sarà lo stesso Sampson a riconoscere che, sì, aveva ragione Steve, egli non avrebbe potuto reggere ancora per molto quei ritmi e, alla luce di ciò che avrebbero fatto in seguito i Maiden – tour infiniti in giro per il mondo e serratissime sessioni di registrazione – sarebbe probabilmente morto su un palco. Dalle interviste a Sampson emerge che per lui fu una delusione notevole, tanto è vero che da quel momento smise di suonare da professionista. Un altro sacrificio celebrato da Steve Harris sull’altare del Dio Successo. Fuori lui, dentro Clive Burr che su consiglio di Stratton mollò i Samson ed entrò nelle file della Vergine di Ferro. In quanto a Doug, ebbe l’appagamento di comparire un’ultima volta nella line up ufficiale, avendo registrato la parte di batteria di Burning Ambition, lato B del singolo. Ben misera soddisfazione, trattandosi di fatto di un brano da scartare, inserito senza troppa convinzione e particolari aspettative, essendo uno dei primi pezzi, se non il primo, scritti da Harris quando i Maiden non esistevano ancora e ben distante dalla loro cifra.

Il singolo

Pubblicato l’8 febbraio del 1980, il testo è opera di Paul, la musica di Steve: qualche tocco di batteria semplicissimo, un giro di basso ancora più semplice ma efficacissimo, Running Free è il singolo perfetto per l’esibizione dal vivo, è impossibile non cantarlo ed ha una struttura tale che consente infinite variazioni sul tema. Dall’arrivo di Bruce sarà costantemente utilizzato come chiusura ai concerti per dare il colpo di grazia ai fan, ma anche strumentalmente per interagire col pubblico, farlo urlare all’unisono, presentare i membri del gruppo, ricevere applausi, congedarsi e far valere quel giro di basso immortale, dimostrando ancora una volta quale è lo strumento più importante di tutti in una band heavy metal. La natura live del pezzo è anche confermata dalla sua presenza nei molti live album dei Maiden degli anni a venire. Una delle versioni più rappresentativa è contenuta nel Live After Death, dura oltre 8 minuti e riassume tutto quanto detto sopra, restando anche molto fedele all’originale. Originale che resta, ad ogni modo, quella da preferire in assoluto, sebbene Nicko McBrain, più abile di Clive tecnicamente, riesca tutt’ora a renderla più dinamica. Inoltre, per una mera questione di imprinting e sebbene le doti da mattatore di Dickinson siano innate e incontestabili, appare impossibile scindere la ruvida voce di Paul Di’Anno e quel “ok” che dà il via alla chitarra dal brano in sé. La prima testimonianza video dal vivo risale all’aprile del 1980, nel concerto al Ruskin Arms, lo storico locale di East Ham dove i Maiden si esibirono ripetutamente nei primi anni.

Ultima, immancabile menzione per Eddie: il mostro appare per la prima volta in assoluto su una copertina ma non si vede in volto, è ancora in ombra, inquietante e un po’ punk, con un collo di bottiglia in mano, il metallaro in fuga e sul muro in fondo al vicolo i nomi di Judas Priest, Led Zeppelin, Scorpions, AC/DC e soprattutto gli Hammers, cioè la squadra di calcio del West Ham United, nelle cui giovanili aveva militato lo stesso Steve. (Charles)

12 commenti

  • Ottimo! Ma pure i 50 di Black Sabbath non me li dimenticherei…

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  • Lorenzo (l'altro)

    Auguri a tutti. In particolare a Burr e Di’Anno, senza i quali nulla sarebbe stato più lo stesso…

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  • Ottimo articolo, me lo sono bevuto come un crodino. Comunque per me la canzone paradigmatica nelle mila volte che li ho visti live rimane The Trooper.

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  • Bellissimo articolo e propongo di trasformarla in una rubrica saltuaria dove parlare dei grandi capolavori del passato che compiono 40 anni.

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  • Articolo evocativo. Mi piace pensare che possa essere d’ispirazione per chi si cimenta con l’inizio di un progetto, di un’ispirazione o anche solo dei prodromi di una visione artistica. Non so perché ma viene alla mente Gilles Deleuze mentre scrivi di Steve Harris e della sua creatura. In particolare quando il filosofo francese muove una feroce critica alla passività culturale del cattolicesimo, antitetica alla destabilizzazione che il desiderio restituisce alla natura umana. Ecco, infondo Harris rappresenta questa indomabilità. Il metal stesso ne è intriso. “L’uomo, come macchina desiderante, segna incessantemente una frattura rispetto al mondo, una differenza ed un’alterità che le odierne strutture di potere tentano di reprimere coercitivamente”.

    Non serviam.

    Costi quel che costi.

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    • Non so nulla di filosofia (sono un metallaro materialista e biologo riduzionista), ma la citazione è interessante. Simile ad alcune conclusioni proposte da Luca Leonello Rimbotti in “Rock duro anti-sistema” (Edizioni Settimo Sigillo, 2006).

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      • Nemmeno io so molto di filosofia. “Logica del senso” e “Differenza e ripetizione” però sono libri bellissimi, per esempio. Quando posso leggo cose che intersecano linguistica, psicoanalisi, decostruzionismo, esistenzialismo, strutturalismo. Da vari punti di vista. E della biologia mi ricordo spesso quando le parole non bastano. O non servono.

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  • Davvero ottimo pezzo.

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  • Forse non vi rendete conto nemmeno voi dell’importanza di quello che scrivete.

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  • Sergente Kabukiman

    Bellissimo articolo, bravo Charles

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  • Supermariolino

    Interessantissima ricostruzione storica e in più mi è sembrato di tornare ragazzino. Grazie.

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