Avere 20 anni: dicembre 1999

KAMELOT – The Fourth Legacy

Cesare Carrozzi: Ecco, qui è dove i Kamelot cominciarono a fare sul serio: questo è il primo lavoro con un certo riscontro nel vecchio continente (specie in Germania) ed il primo dei dischi dove Roy Khan ebbe un certo peso nella stesura dei pezzi. Anche se personalmente gli preferisco il successivo Karma, un album secondo me estremamente sottovalutato, The Fourth Legacy comunque mi piacque molto, anche se, proprio a differenza di Karma che ascolto più spesso, lo risento poco. Il fatto è che ci sono dei pezzi molto, molto, MOLTO belli ed ispirati, tipo Silent Goddess, The Shadow of Uther, A Sailorman’s Hymn, Alexandria o la stessa The Fourth Legacy, ed altri, fortunatamente in misura minoritaria rispetto ai primi, piuttosto da cioccolatai, e mi riferisco a The Inquisitor, Until Kingdom Come (che manco sarebbe troppo male, solo che è un totale scippo agli Stratovarius dell’epoca) e, soprattutto, Nights of Arabia, che pure parte bene ma poi diventa una roba che sarebbe stata in un musical della Disney, e no, non va bene proprio. Comunque il pezzo che sigilla The Fourth Legacy come un ottimo album (ma non il capolavoro che si pensa in giro) è Lunar Sanctum, canzone fantastica, atmosferica, con un lavoro di batteria ottimo e un Roy Khan che dona l’interpretazione migliore di tutto il disco. Insomma, The Fourth Legacy è un lavoro molto molto buono, che vent’anni fa piantò i semi per una carriera che, almeno fino ad un certo punto, fu tutta in ascesa. Consigliatissimo in queste fredde serate invernali. 

MITHOTYN – Gathered Around the Oaken Table

Maurizio Diaz: Con la fine del ‘99 direi che possiamo iniziare a parlare con certezza dell’inizio del folk metal come lo conosciamo oggi. In Gathered Around the Oaken Table c’è ancora una forte influenza black, ma rispetto ad album come Arntor o il precedente King of the Distant Forest, molto più seriosi, l’ultimo lavoro dei Mithotyn è pieno zeppo di cori, cavalcate tiratissime e melodie allegre, spesso di pochissime battute e ripetute ad oltranza: da qui a infarcire i pezzi di zufoli il passo inizia a diventare estremamente breve. Sentite per esempio come Heart of Stone nella melodia del bridge sia una roba molto adatta agli zufolini, e come a un certo punto si trasformi in una danza per poi tornare al tupatupa classico. O di come in Guided by History gli zufoli compaiano proprio esplicitamente. E vorrei anche ricordare The Well of Mimir, i coretti di Chariot of Power e Nocturnal Raiders con quel meraviglioso rombo di tuono piazzato lì assieme l’assolo di apertura, anche se alla fine potreste mettere senza problemi la riproduzione casuale e incontrare un pezzo in cui ci sono vichinghi cafoni che mangiano e se la raccontano alla grandissima. Certo, se cercate un’epica più genuina il precedente è decisamente meglio, oltre che il mio preferito di loro produzione, ma in fondo come si fa a lamentarsi con tutto questo ben di Odino? Dopo questo disco l’unica speranza di sentire di nuovo all’opera i membri di questa band nella speranza del miracolo del ritorno saranno i Falconer prima e i King of Asgard poi (di oltre una decina di anni), ma le vette dei Mithotyn non torneranno mai più, ma neanche lontanamente. Peccato.

WIZARD – Bound by Metal

Trainspotting: I tamarrissimi Wizard dal Nord Reno – Westfalia sono uno dei gruppi che meglio hanno assimilato la lezione dei Manowar post-Fighting the World. Ovviamente con meno poesia e un respiro meno ampio, ma se vi esaltate con pezzi immortali come Fight Until We Die o The Gods Made Heavy Metal è a loro che dovete rivolgervi per rivivere quelle stesse sensazioni, seppur in piccolo. Questo Bound by Metal si apre con una roba clamorosa come Hammer, Bow, Axe and Sword che farebbe venire voglia di prendere un’ascia da battaglia e andare a spaccare crani persino a uno studente fuorisede strafatto e spalmato sul divano dopo una maratona di cinquanta chilometri in salita, e continua con una serie ininterrotta di epici inni cazzodurissimi suonati con la delicatezza di un fabbro ferraio sotto anfetamine. Non si può sinceramente resistere a pezzi come Spill the Blood of Our Enemies, Dark Wings, Battlefield of Death o la devastante Gladiators of Steel, nonostante un cantante non proprio eccelso e una produzione che è riuscita a salvarsi in calcio d’angolo solo con la rimasterizzazione di qualche anno fa. Gli Wizard, quandomeno nella prima parte della carriera, erano un gruppo meritevolissimo e ingiustamente sottovalutato: in attesa del ventennale del capolavoro Head of the Deceiver l’anno prossimo, vi consiglio nel frattempo di spararvi Bound by Metal a volume altissimo come se non ci fosse un domani.

JUDAS ISCARIOT – Heaven in Flames / Distant in Solitary Night

Michele Romani: Lord Akhenaten è sempre stato un personaggio molto discusso all’interno della vecchia scena black metal, sia per le sue posizioni politiche piuttosto nette che per quanto riguarda la proposta sonora, per molti fin troppo debitrice della scena norvegese primi anni ’90 (Darkthrone su tutti). In questa sede ho scelto di trattare contemporaneamente sia Heaven in Flames che Distant in Solitary Night, visto che sono usciti ambedue nello stesso anno (1999) e che suonano in modo praticamente identico, discorso che in realtà si può tranquillamente allargare a tutta la discografia di Judas Iscariot. Non c’è spazio quindi per sperimentazioni varie: siamo di fronte ad un purissimo black metal novantiano vecchia scuola di chiarissima ispirazione norvegese che ti porta con la mente ai bei tempi andati. Stilisticamente i brani sono semplicissimi ai limiti dello scolastico, con glaciali riff che si ripetono un’infinità di volte (addirittura in certi pezzi ce ne sono due-tre al massimo) e delle inquietanti tastiere che ogni tanto fanno capolino e regalano un po’ di atmosfera, soprattutto nei brani più lenti e cadenzati. Insomma un progetto oramai terminato da tempo (la “band” si è sciolta nel 2002) e che, pur nella sua derivatività, ha lasciato un segno tangibile nella storia del black metal. Se ascoltate brani fenomenali come An Eternal Kingdom of Fire o To The Black Tower of Victory capirete senz’altro ciò di cui sto parlando.

IN BATTLE – The Rage of the Northmen

Trainspotting: Ricordo benissimo le stroncature impietose dei primi due album degli In Battle, il debutto omonimo prima e questo The Rage of the Northmen poi. Dato che, povero ingenuo, all’epoca ancora avevo una qualche fiducia nei recensori delle riviste, tanto bastò per tenermi alla larga dal gruppo svedese per molti anni a venire. Li riscoprii per caso almeno un decennio dopo, e a posteriori non riuscii a capacitarmi dell’accanimento degli scribacchini di fine anni Novanta su un gruppo che quantomeno aveva una sua spiccata personalità. I primi In Battle erano infatti un gruppo quantomeno personale, la cui cifra caratteristica fondamentale era la velocità estrema, più insistita di quella del black svedese classico in stile Marduk, a cui si accompagnava una violenza ferale e un insospettabile gusto melodico; quest’ultimo è ben nascosto tra le righe del casino assurdo a tremila all’ora che occupa nove decimi del disco, ma c’è. The Rage of the Northmen non è niente di particolarmente trascendentale, ma sono sicuro che potrebbe piacere a moltissimi.

EBONY TEARS – A Handful of Nothing

Charles: La carriera degli svedesi Ebony Tears è stata breve, segnata da soli tre album. Non hanno raccolto praticamente nulla, non hanno creato altri gruppi degni di menzione dopo lo scioglimento di questo, non avevano side project particolarmente brillanti. Insomma, un gruppo dei tanti. Con la piccola postilla che il primo disco, Tortura Insomniae, spaccava assai. Era originale e strampalato, fantasioso, non aveva alcun ritegno e sperimentava (sempre nell’alveo del death svedese) senza guardarsi indietro o intorno. Segnato da una produzione veramente scarsa, fu seguito da questo qui, A Handful of Nothing, che segnò un netto miglioramento dal punto di vista del suono ma un netto calo in termini di originalità e personalità. Perse i violini, le voci femminili e tutto quello che aveva reso il precedente, appunto, bello e strampalato. A Handful si attesta sull’emulazione pedissequa degli At The Gates e si va ad inserire nell’elenco dei millemila gruppi che già lo facevano da tempo e forse anche meglio. All’epoca ne rimasi delusissimo, mentre lo riascolto oggi e mi piace; probabilmente se nel 2020 uscisse una cosa così ci uscirei pazzo.

TIERRA SANTA – Legendario

Trainspotting: I primi Tierra Santa erano un gruppo che doveva ancora trovare la propria strada. Così come il debutto Medieval, anche questo secondo Legendario è abbastanza lontano dalla loro piena maturità, che esplose definitivamente con lo spettacolare Sangre de Reyes del 2001. Qui si continuano a omaggiare visceralmente gli Iron Maiden della seconda metà degli anni Ottanta, specie nell’incessante lavoro armonizzante delle chitarre, nelle ritmiche e nell’impostazione vocale (per quanto Angel San Juan sia un cantante completamente diverso da Dickinson). Ciò comporta una sostanziale omogeneità dell’album, a parte alcuni episodi in cui si iniziano ad intuire le reali potenzialità del gruppo. Ma, nonostante Legendario abbia questo pesante carico di derivatività che potrebbe non farlo prendere così sul serio, e nonostante sia un disco a tutti gli effetti minore rispetto al citato Sangre de Reyes e ad Indomable, è un buonissimo album, pieno di melodie memorabili e suonato con passione vibrante. In un’epoca in cui il metal classico iniziava pian piano a tornare di moda con un’approccio giocoforza accademico, un disco come questo è una piacevolissima boccata d’aria pulita. Non ho mai capito perché i Tierra Santa siano sempre stati un gruppo così sottovalutato, ma non è mai troppo tardi per redimerli – e redimersi.

ALGHAZANTH – Thy Aeons Envenomed Sanity

Michele Romani: Gli Alghazanth, all’interno della variegatissima scena black finlandese, sono stati sempre un mio personale pallino, ed il fatto che siano sempre stati così poco considerati rispetto a nomi più altisonanti per me è rimasto sempre un mistero. Dopo il bellissimo Eight Coffin Nails (nella mia playlist dello scorso anno) la band ha deciso di terminare la sua più che ventennale carriera, cominciata proprio nel 1999 con questo Thy Aeons Envenomed Sanity. La definizione che si è data la band di “majestic black metal” è sempre calzata a pennello per descrivere la proposta dei Nostri, un black metal sofisticato dalle grandi apertura sinfoniche che sicuramente rende omaggio in più punti all’Imperatore, ma con le aperture melodiche tipiche del black finlandese che riescono comunque a delineare una proposta abbastanza originale (in più punti mi ricordano un po’ i francesi Seth, a proposito di band poco considerate). Il disco perde un po’ di mordente nelle seconda parte, ma vi assicuro che la prima è roba veramente da leccarsi i baffi, e due brani come The Unbounded Wrath e My Somberness Surmounted sono a dir poco magnifici. Una band tassativamente da riscoprire.

WARHAMMER – Deathchrist

Trainspotting: Visto che negli ultimi mesi abbiamo molto parlato dei redivivi Hellhammer nei due report del Wacken e del Black Winter Fest, capita a fagiuolo il ventennale del secondo album dei tedeschi Warhammer, il cui unico obiettivo (dichiarato!) era suonare il più possibile simile alla vecchia band di Tom Warrior. Celeberrime le loro interviste in cui si dilungavano a raccontare l’impegno profuso nel ricostruire le stesse strumentazioni e distorsioni dei loro ispiratori, al punto che – non fosse per una migliore produzione e un timbro vocale ovviamente diverso – ascoltando uno qualsiasi dei loro dischi sembra davvero di sentire scarti degli Hellhammer persi in qualche cassetto. E Deathchrist è un gradevolissimo dischetto che, una volta passata la curiosità e la sorpresa, ti lascia in testa riff solidi e belli acchiapponi. Consigliatissimi da ascoltare in macchina, esattamente come gli originali.

AZAGHAL – Helvetin Yhdeksan Piiria

Michele Romani: Se per gli Alghazanth si parlava di un black metal piuttosto sofisticato e sinfonico, lo stesso discorso non si può certo fare per i connazionali Azaghal, uno dei 250 gruppi dell’indaffaratissimo Narquath, di cui tra le tante mi preme annoverare i grandissimi Wyrd che sono usciti proprio qualche mese fa con un nuovo album. Gli Azaghal, a dir la verità, a parte l’esordio Mustamaa non mi hanno mai fatto propriamente impazzire: parliamo infatti di un black metal senza tanti fronzoli che punta più sull’impatto che sull’atmosfera. Rispetto a Mustamaa le linee melodiche tipiche della scuola black finlandese vengono in queste frangente lasciate da parte a favore di un raw black metal che all’inizio può anche intrigare per la ferocia dei brani, ma che alla fine comincia a stancare per mancanza di varietà delle soluzioni. Se proprio dovete scoprirli andate senza indugi sul disco precedente, dopo non li ho più seguiti.

CIRITH GORGOR – Onwards to the Spectral Defile

Trainspotting: Questo è un disco sottovalutatissimo di un gruppo sottovalutatissimo. Di gruppi black di questo tipo ce n’erano a valanghe, ma i Cirith Gorgor dalla terra dei mulini a vento sono sempre stati molto poco considerati. Io personalmente li scoprii per puro caso e me ne innamorai subito: senza compromessi eppure variegati; brutali eppure atmosferici ed evocativi; veloci e violenti eppure con una grande cura nelle melodie. Onwards to the Spectral Defile è il loro debutto, e probabilmente neanche il loro migliore: eppure anche dopo vent’anni cattura l’attenzione già a primo impatto, impedendoti di smettere l’ascolto fino alla fine del disco, a causa della varietà stilistica e tecnica delle nove tracce qui presenti. I Cirith Gorgor avevano una propria identità peculiare, che però non è mai stata apprezzata a causa della poca notorietà della band; il loro black metal è indubitabilmente di scuola svedese, ma loro lo reinterpretavano sotto la loro ottica, e la cosa gli usciva sorprendentemente bene. Per quanto mi riguarda preferisco un Onwards to the Spectral Defile a un qualsiasi lavoro a nome Dark Funeral: vediamo se così riesco a farvi venire la curiosità di ascoltarli.

FINNTROLL – Midnattens Widunder

Maurizio Diaz: Ed ecco l’altro pezzo da 90 (e del ‘99) del folk metal: signore e signori, Midnattens Widunder. I Finntroll sono tra i miei preferiti nel genere, più o meno da quando mi sono appassionato a questo tipo di cose. E grazie tante, direte voi, mica sei l’unico. Il disco, nonostante sia opera di ventenni al debutto, contiene già tutti gli elementi che verranno nei dischi successivi, solo con una tecnica un po’ più acerba. Melodie, orchestrazioni, suoni che sembrano venire direttamente dai cartoni animati, ma assemblati in modo da rendere credibile e in qualche modo “serio” il prodotto finale. Il segreto è che qui dentro c’è qualcuno che sa precisamente quello che fa, seppure ancora alle prime armi; ma con le idee sull’effetto da ottenere già ben chiare. Di fatto la vera forza dei Finntroll è sempre stata nella composizione, che amalgama l’humppa finlandese, dei suoni imbarazzanti apparentemente buoni solo per un cartone animato, e un black metal abbastanza ritmato. L’effetto finale è volutamente buffo: roba che a sentirla su disco sembra tutto facile, sembra che basti aggiungere un tappetone di tastiere qua, un violino di là, due flautini in mezzo e via, invece la porcata è sempre dietro l’angolo e quando va male i risultati sono disastrosi. Sapete, tipo le decine di gruppi che verranno dopo, ma senza le medesime capacità. Ora, è vero che non stiamo parlando del disco imprescindibile dei Finntroll (ancora un anno, dai) o del capolavoro assoluto (un anno), e mi rendo anche conto di essere un fan di Trollhorn e del suo modo di fare musica, però se ascoltate Midnattens Widunder subito dopo un qualunque disco associabile al genere, vi renderete conto di come questo disco faccia le scarpe a buona parte non solo delle produzioni strettamente folk metal, ma anche di quelle che semplicemente si avvalgono di parti orchestrate. E poi dai, l’intro che sembra citare l’Apprendista Stregone, Svampfest, la title track… Se non vi piace Midnattens bla bla, meritate di essere stritolati da un troll.

ABYSSOS – Fhinsthanian Nightbreed

Trainspotting: Vi ricordate degli Abyssos? Ne avevamo parlato qui: gruppo che all’epoca sembrava si fosse accodato alla ignominiosa moda del vampirismo (specie a causa delle terrificanti copertine), ma che in realtà suonava più come un normale gruppo svedese tra Dissection e primi Naglfar. Quest’album dal nome impronunciabile è il loro secondo e ultimo lavoro prima di scomparire letteralmente nel nulla: non è gradevole come il primo, ma ha comunque i suoi momenti, diciamo così. Le tematiche vampiriche qui sono forse addirittura più presenti che nel primo album, pur essendo spesso infilate a forza su una struttura e uno stile che non ha nulla a che vedere con Cradle of Filth et similia. In Fhinsthanian Nightbreed troviamo qui e lì eteree voci femminili e interventi di tastiera che ricordano tutto quel gaio immaginario di merletti e broccati macchiati di sangue fresco; comunque nulla che disturbi troppo e che distolga l’attenzione dal fatto che sì, il concetto sarà anche parecchio grottesco, ma alla fine ‘sti Abyssos non è che facessero poi così tanto schifo.

WACO JESUS – The Destruction of Commercial Scum

Ciccio Russo: L’esordio di questi macellai dell’Illinois fece parlare di sé soprattutto per la ributtante copertina, un collage di immagini coprofile in grado di rivoltare lo stomaco anche al brutallaro più scafato (sostituito nelle successive ristampe da una più innocua tettona) e per i testi all’insegna del femminismo radicale, con titoli soavi quali Mass Pussy Obliteration, Cunt KillerA Butt Plug in Your Pussy My Fist Up Your Ass (troppa trama, qui). La musica, come era lecito aspettarsi, è un death/grind grezzo e truculento, basato sulla consueta alternanza di up e mid tempo con doppio registro vocale growling/screaming ad animare pezzi fulminei (dieci brani per 25 minuti) alternati da campionamenti di gentiluomini che apostrofano ignote destinatarie al suono di you fucking cunt o you fucking cocksucker. Se siete fan del genere, c’è pure da divertirsi ma la tecnica non è proprio eccelsa e i riff a volte sono davvero troppo minimali persino per gli standard del genere. Faranno di meglio in seguito, in particolare con l’ultimo Mayhem Doctrine, targato 2013, dopo il quale non si sono ancora fatti risentire. 

TULUS – Evil 1999

Trainspotting: Se i blackster svedesi tendono, alla lunga, a sconfinare nel death metal, la deriva naturale del black norvegese è il black’n’roll. Se i padri nobili di questa tendenza sono ovviamente i Darkthrone, unici veri eredi stilistici dei Celtic Frost, la band che prima di tutte ha incarnato il black’n’roll come stile peculiare della propria essenza furono i Tulus, probabilmente meglio conosciuti sotto il nome della loro successiva incarnazione, Khold. Evil 1999 è il loro terzo album: titolo scemo, copertina ancora di più ma, fortunatamente, il disco è migliore di come si presenta. La sua caratteristica principale è il tiro, o groove che dir si voglia, impreziosito dalle chitarre dissonanti e da qualche esperimento qui e lì come in Salme, in cui le chitarre spagnole convivono con i cori vichinghi. Non sono mai stato un fan dei Tulus/Khold, che non riesco ad ascoltare per più di una manciata di pezzi senza stufarmi; ma i primi album dei Tulus, nel bene e nel male, aiutano a comprendere meglio il percorso evolutivo del black norvegese.

TO/DIE/FOR – All Eternity

Michele Romani: Il primo ricordo che ho dei To Die For è legato ad un terrificante concerto a cui assistetti al Palacisalfa un paio di decenni fa, quando i Nostri vennero chiamati ad aprire per Sentenced (che poi non suonarono per le pessime condizioni in cui versava il povero Miika Tenkula), In Flames e Dark Tranquillity. La band presentava in quel frangente proprio questo All Eternity. Peccato fossero tutti piuttosto alticci, e la cosa, unita alla mancanza di esperienza in sede live, diede vita ad uno spettacolo totalmente da dimenticare. Musicalmente i To Die For li possiamo catalogare nel cosiddetto filone “love metal” che ai tempi ebbe una discreta cassa di risonanza, grazie al traino del fenomeno HIM di Ville Valo. In realtà, rispetto a questi ultimi, la proposta dei finlandesi è decisamente più metal, con chitarre molto più in evidenza ed una serie di brani tremendamente catchy ma che comunque avevano ai tempi un impatto non indifferente. Tra tutti, To Live in You e Together Complete sono i miei personali highlights, se non fosse per la voce del cantante che ho sempre trovato tremendamente fastidiosa. Non ho la più pallida idea se esistano ancora, ma diciamo che vado a dormire sereno lo stesso.

AETERNUS – Shadows of Old

Trainspotting: Avevo parlato degli Aeternus in occasione del debutto Beyond the Wandering Moon un paio d’anni fa; li ho descritti come un mio gruppo feticcio, e Shadows of Old è stato forse il loro disco che ho ascoltato di più, anche perché li scoprii proprio nel tour di quest’album. Questo è il loro album della maturità, in cui raggiungono un equilibrio perfetto tra brutalità ed atmosfera; gli Aeternus erano un gruppo death, ma erano anche impregnati profondamente di black metal a causa della loro provenienza sia geografica (Bergen, nientemeno) che personale, dato che i vari membri che si sono succeduti alla corte del cantante/chitarrista Ares sono anche passati per mezza scena norvegese. La particolarità sta nel fatto che le loro influenze death metal non erano svedesi, ma angloamericane, dalla Florida ai Bolt Thrower; e, con l’evocatività maligna del black, ciò che usciva fuori era qualcosa che molti hanno provato a raggiungere senza però mai riuscirci, o quantomeno non a questi livelli. Ascoltate Descent into Underworld ad esempio, con la sua epica marzialità e la sensazione di camminare tra le fiamme dell’inferno e gli sbuffi sulfurei di desolati panorami ctonii. Shadows of Old, come detto per il debutto dei Cirith Gorgor più sopra, è un disco sottovalutatissimo, il cui stile, se fosse stato opportunamente valorizzato, avrebbe potuto rivitalizzare una scena che all’epoca stava già diventando pericolosamente asfittica.

4 commenti

  • Quanto bel black metal, quanto gelo del Maestro Romani!

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  • Che delusione quegli Ebony Tears… preso sulla (malriposta) fiducia dopo un capolavoro come tortura insomniae. del resto del lotto salvo mithotyn e kamelot.

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  • Gli Algazanth li comprai su qualche mailorder ad un prezzo stracciatissimo e li presi più che atro perchè sapevo che erano finlandesi. Il disco non lo ascolto da eoni, ma ricordo che non mi dispiaceva, ma nemmeno lo ritenevo questo gran capolavoro. Gli Azaghal, insieme ai Wyrd, erano tra i miei gruppi fetici dell’epoca e li ho seguiti con costanza per tanti anni. Helvetin è un buon disco, forse Mustamaa risultava più atmosferico per la sua registrazione casalinga, ma sostanzialmente si citava tanto Black norvegese. Il top per me lo raggiungeranno con lo split dei Mustan Kuun Lapset. I Waco Jesus me li fece conoscere un batterista che conoscevo all’epoca fissato con il grin più zozzo e lurido. Folkloristici per le copertine, ma questa robba non fa’ per me…

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  • Gran bel mese, il mio preferito e purtroppo ultimo dei Mithotyn e l’esordio dei Finntroll sono tanta bella roba, anche se per me è a partire da Jaktens Tid che cominceranno a fare sul serio
    Non conosco i Wizard, ma letto quel che ne dice Trainspotting direi che sono da recuperare assolutamente.

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