LUNAR SHADOW – The Smokeless Fires

Far From Light, il debutto dei Lunar Shadow, l’ho praticamente consumato. Caso più unico che raro che io mi affezioni ad un disco di nuova uscita al punto da venirne ossessionato, quell’album è rimasto fisso nel mio stereo per mesi e mesi finché non l’ho imparato praticamente a memoria. Da allora ho continuato ad ascoltarlo piuttosto regolarmente, senza che mi venisse mai a noia, e in tutto questo tempo ho sperato che si riconfermassero, magari non pretendendo un secondo disco allo stesso livello del primo ma, quantomeno, auspicandomi che non si sgonfiassero subito come neve al sole.

Temevo qualcosa per il cambio di cantante: non perché Alex Vornam avesse una voce eccelsa in senso assoluto, ma perché il suo timbro sgraziato si adattava perfettamente allo spirito dei Lunar Shadow. Il mio timore era che scegliessero un cantante tecnicamente dotato ma fuori contesto; perché bisogna avere la consapevolezza dell’unicità della propria musica, e di ciò che essa necessita nel particolare; e purtroppo, a volte, i gruppi tendono a fraintendere sé stessi. Fortunatamente, Robert Röttig non è al livello del predecessore, ma va comunque abbastanza bene. Del resto i Lunar Shadow sono un gruppo integralmente fondato sulla chitarra di Max Birbaum, leader e compositore unico, che struttura la propria musica in modo che sia una cascata ininterrotta di riff, arpeggi ed armonizzazioni senza soluzione di continuità.

Chitarre, quindi. Basta far partire l’apertura, la bellissima Catch Fire, per capire di cosa si parla. Una breve intro di pianoforte e parte subito il riff portante, che di colpo si ferma per lasciare spazio ad una brusca ripartenza speed, poi di nuovo il riff che riparte veloce, poi rallenta, poi riparte l’accelerazione – e solo a questo punto, dopo oltre due minuti, si sente per la prima volta la voce del cantante – e non si sentirà per molto. E di lì è tutto un ottovolante di velocizzazioni e rallentamenti, stop’n’go, cambi di tempo, con l’esplosione orgasmica di una lunga cavalcata chitarristica che si prende il palcoscenico giungendo ad un climax commovente fino alla fine del pezzo.

Catch Fire è forse la più bella tra le 7 dell’album, insieme alla succitata Hawk of the Hills, posta in chiusura. Una menzione speciale va però anche a Roses, il pezzo più lineare e più classicamente legato alla forma-canzone. Comunque, se escludiamo la ballata Pretend, superflua com’era superflua la ballata del primo album, il livello è altissimo, anche se non esattamente come Far From Light, che faceva quasi venire da piangere per quanto era bello. Se è vero, inoltre, che Röttig non è stata concettualmente una cattiva scelta, è anche vero che non riesce a dare quel qualcosa in più che gli si chiederebbe. Nulla di grave, come detto, perché The Smokeless Fires è un disco di chitarre, e il cantante è nulla più che un orpello che peraltro non si fa neanche sentire troppo spesso.

Lo stile per il resto non è cambiato, dai tempi del primo disco (o del primo EP, Triumphator): Birbaum dice che le sue influenze principali sono primi Manowar e Dissection, ma sostituirei i Manowar con gli Warlord (a cui devono tantissimo, specie in termini di atmosfera), e parlerei di una influenza più in generale svedese nella composizione dei riff e in certe parti in blastbeat, più che di Dissection in particolare.

Non so se The Smokeless Fires sarà il mio disco del 2019 (nell’anno in cui c’è il grande ritorno degli Atlantean Kodex è opportuno quantomeno che mi prenda un po’ di tempo per ascoltare questi ultimi), ma nel frattempo sta rimanendo fisso in cuffia quasi quanto Far From Light. Vediamo che succede. (barg)

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