Il power metal era un complotto dei toscani per trombare le nostre mamme

Adesso vi faccio una semplice domanda: che cos’era il power metal, vent’anni fa?

Ero metallaro da qualche annetto, di colpo nel giro dei concerti, tutto preso a scegliere con fatica il jeans da portare strappato insieme alla maglietta di Survive dei Nuclear Assault. Essendo particolarmente giovane era più facile che capitassi nei club della zona, piuttosto che a qualche grossa data milanese. Così ebbi modo di studiare il fenomeno molto da vicino: non vestivano per niente come me, né avevano le sembianze da apicoltore tipiche degli Stryper. Inizialmente non li seppi affatto catalogare. A che cosa ambivano?

In quel periodo si stava manifestando un fenomeno che inizialmente sottovalutai, e che solo lo scorrere del tempo mi ha permesso di analizzare con maggiore attenzione. Fatta la premessa che girava un botto di power metal della nuova scuola, molte delle band che ebbi la fortuna di osservare di persona provenivano perfino dalla mia stessa regione: la Toscana. C’erano anche molte formazioni in tournée, sia chiaro, e le usanze andavano accomunando un po’ tutti. I veterani avevano un’età compresa tra trenta e trentacinque anni, mentre certi esordienti già in odore di affermazione si portavano sulle spalle un decennio in meno. Erano tutti uomini giovani, ma abbastanza grandi per elaborare un piano mentre noi ragazzini perdevamo le serate al cinema, magari dietro alla MILF di American Pie.

Il musicista power metal al tempo dell’esplosione e riaffermazione del genere si presentava sul palco così addobbato:

Lo stile da giocatore di biliardo del circolo ARCI. Questo outfit prevedeva scarpa a punta lucida, un pantalone da cerimonia e la classica camicia bianca sovrastata da un gilet in netto contrasto. Il granata, o il similare bordeaux, andavano per la maggiore. Il fatto che al mio matrimonio fossi vestito grossomodo così mi preoccupa e nemmeno poco: probabilmente il mio subconscio mi stava ordinando di ritornare sulla musica di quegli anni.

Lo stile settecentesco. Camicia candida, sfarzosa e strabordante di pieghe: nient’altro al di sopra, come a volerla risaltare il più possibile. Impossibile, d’altro canto, era lavarla e stirarla: le case discografiche iniziarono a fornire ai chitarristi uno smacchiatore a pennina per limitare i costi di sostituzione, ma la crisi si sarebbe ugualmente abbattuta su di loro. L’alternativa invernale alla camicia bianca era la giacca grigia con gli alamari, un trend divenuto comune solo qualche anno più tardi.

Lo stile reaganiano, che prevedeva l’esibizione del torso nudo palestrato come nei film diretti da George P. Cosmatos. Fu l’unica opzione saldamente ancorata al decennio precedente, quello delle mie Reebok Pump e di golem muscolari come Glenn Danzig. Nei backstage mi immaginavo gente che, anziché tirare su cocaina, sniffava quei barattoli di proteine in polvere che si trovano nei negozi sportivi. Per ulteriori delucidazioni, consultare l’articolo a cura di Ciccio Russo.

Il power metal di quegli anni, dicevo. Copertine a sfondo fantasy, immerse in un immaginario composto da dragoni opposti ad eroi armati di spada. Tematiche della medesima tipologia, in fotocopia, giusto qualche anno prima del boom dei film ispirati a Tolkien. Una musica per niente estrema, sorretta da un’impostazione melodica particolarmente forte. Inoltre, uno stile che solo alcune volte si caratterizzava con strutture ai limiti del prog metal, come accadde a Symphony X o Labyrinth: semplicità e linearità come parole d’ordine. Il target del power metal di quegli anni erano i giovanissimi. I giovanissimi non erano in grado di guidare un’automobile, nella maggior parte dei casi. Nella maggior parte dei casi, ai concerti si arrivava grazie ai genitori. I nostri genitori avevano, molto spesso, tra trentacinque e cinquanta anni. La donna di età compresa tra trentacinque e cinquanta anni era ed è a tutti gli effetti considerabile una MILF. Tutti sapevano che cosa fosse una MILF, e American Pie aveva rimesso la donna matura un po’ nel mirino di tutti.

Se io voglio suonare il mio thrash metal americano altamente sporcato da origini hardcore punk, indosserò jeans e maglietta e scatenerò un delirio nel cosiddetto moshpit. Questo potevano pensarlo i Suicidal Tendencies all’epoca di Lights Camera Revolution, il mio preferito della loro discografia. Se invece voglio lavorare con i ragazzini finirò in una scuola elementare, in galera, oppure mi chiamerò Giovanni Muciaccia. Ma se ho un secondo fine freddo e calcolatore, è allora che creerò ad hoc un format capace di farmi arrivare fino alle loro mamme grazie alla presenza in loco dei ragazzini stessi: potrò mai presentarmi ad una prosperosa quarantenne avente una quinta di poppe, in jeans e maglietta come l’anagramma invecchiato del suo figlioletto in piena esplosione ormonale? No, mi dovrò anzi vestire come l’amico palestrato del babbo con cui egli gioca al biliardo il giovedì sera. Mi dovrò mostrare uomo, anzi maschio, affinché ella non rimugini troppo su ciò che proponiamo, suoniamo, narriamo: scoprirebbe la trappola in men che non si dica. Infine dovrò essere elegante per fugare ogni dubbio residuo: il quarantenne che hai sposato si è appena rovesciato la Peroni addosso guardando la Fiorentina di Anselmo Robbiati, mentre il tracotante trentenne che c’è qui vuole allargare il suo bacino di utenza fatto di ragazzini, e non quello soltanto, con te. Mamma.

 

American Pie l’avevano visto proprio tutti, pure loro. È il vero padre del power metal di quegli anni tumultuosi fatti di grandi capolavori e inenarrabili oscenità. È il deus ex machina che ci spiega perché all’improvviso tutti preferissero questa cosa qua alle rodate sonorità priestiane, nonostante il successo planetario di Painkiller, o al power metal dirompente dei Grave Digger di The Reaper. I Vicious Rumors di Digital Dictator? Preistoria, i Rhapsody gli asteroidi dal cielo. Con occhi ammiranti seguimmo con ardore le esibizioni dei nostri beniamini, distratti dalla doppia cassa ad elicottero e dai draghi evocati in Legendary Tales, mentre nel backstage rischiava di scomparire nientemeno che la mamma. Frutto corrotto di un piano studiato a tavolino, e divulgato da non si sa quale capitano in seguito a un rigoroso studio circa come raggiungere determinati scopi, magari dalle parti di Salvatore Aranzulla. Chi li comandava, dirigeva, ispirava? Forse un alfiere del turismo sessuale come Chris Bay. (Marco Belardi)

4 commenti

  • Il più zozzo di tutti era Andrew McPauls. Senza alcun dubbio.

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  • Finalmente oggi ho avuto la risposta a tante domande, complimenti per la perizia storica delle indagini svolte. Belardi sei un genio!

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  • Questo articolo giunge proprio ora che, mentre ero al (mio) lavoro (in nero, peggio della mer*a), avevo persino chiesto ad un (puzzolente) collega se, per un certo tipo di Power Metal che gira oggi, sia più consono indossare un tutù piuttosto che il caro abbigliamento “Paua” di una volta.
    VI AMO!

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  • Citare Aranzulla mi spaventa un po’, ma l’articolo tocca punti forti. Un complotto dunque, e ci sarebbe da chiedere, alla rispettive madri, mamma, cosa è successo quando a un certo punto sei sparita mezz’ora? Bagno chimico occupato, mi dicesti.

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