ROTTING CHRIST – The Heretics

Recentemente è uscita un’interessantissima biografia autorizzata dei Rotting Christ, chiamata Non Serviam, che aiuta a vedere da un’altra prospettiva la discografia dei fratelli Tolis. Ne parlerò più approfonditamente in sede di recensione, ma nello specifico ci interessa un dettaglio molto importante che fa da fondamento teorico a qualsiasi discorso intorno al presente tredicesimo disco della band greca. E cioè: c’è una linea di demarcazione nettissima tra Khronos e Genesis (loro sesto e settimo album) dovuta al fatto che da quel momento Sakis ha iniziato ad usare strumenti digitali nella registrazione e nella produzione della sua musica. Questo ha cambiato totalmente l’approccio alla composizione, ed è infatti proprio da allora che i Rotting Christ sono cambiati, assumendo quella ritmica marziale e ossessiva che è diventata una costante in tutti i loro dischi successivi e massimamente in determinati album, come Sanctus Diavolos, Rituals e appunto il presente The Heretics.

Dato che, come noto, è dai tempi del terzo Triarchy of the Lost Lovers che Sakis si occupa di qualsiasi cosa riguardante i Rotting Christ (escluse le parti di batteria e, a volte, di tastiera, che comunque scrive lui), non c’è stato alcun apporto esterno che abbia potuto modificare la rotta intrapresa nel 2002. Chi ci ha provato, come l’ex bassista Andreas Lagios, ha dovuto sbattere la testa contro la testardaggine di Sakis per poi andarsene via bofonchiando. Gli unici ad avere contribuito al risultato finale sono stati alcuni produttori, ma chiaramente lì è più una questione di suono e di arrangiamenti che di sostanza. In pratica i Rotting Christ sono una one-man band sin dai tempi dell’abbandono di Jim Mutilator, più di vent’anni fa; e questo comporta aspetti positivi e negativi. 

In sintesi, non ci si può aspettare dai Rotting Christ un cambio di rotta troppo netto. Sembra assurdo dirlo, parlando di un gruppo che è riuscito a scrivere dischi completamente diversi, e non solo seguendo una linea temporale netta ma passando attraverso diverse epoche caratterizzate da stili differenti; ma quello che intendo è che certe soluzioni di base, certe melodie, certi approcci sono intimamente connaturati al loro suono e lo saranno per sempre, non importa in che modo vengano poi adattati allo stile dell’epoca in cui vengono composte. Tutto ciò valorizza la loro coerenza di fondo, ma – dato che la coerenza in sé e per sé non serve a scrivere bei dischi – la loro fortuna è che quelle stesse soluzioni, melodie, approcci sono tra le più belle mai create nel metal estremo. I Rotting Christ sono uno dei gruppi migliori mai partoriti dal metal estremo, e fortunatamente non potranno mai cambiare al punto da diventare qualcosa di troppo diverso da ciò.

Tutto questo per introdurre The Heretics, di cui non si sta parlando benissimo in giro proprio per le caratteristiche innate alla band di cui si diceva sopra. È un perfetto incrocio tra Rituals e Κατά τον δαίμονα εαυτού, nel senso che di Rituals riprende la marzialità ossessiva e l’idiosincrasia per il concetto di forma canzone, mentre dall’altro riprende l’atmosfera più ariosa e meno cupa, grazie all’uso di wah-wah, alle melodie più orecchiabili e alla tendenza ad avere più riff rispetto al claustrofobico Rituals, che non ne aveva quasi per niente. Non aggiunge niente ai due dischi citati, e in questo senso è un album indirizzato ai fan di vecchia data, perché non penso che The Heretics permetta loro di guadagnarne di nuovi.

I pezzi migliori secondo me sono Vetry Zlye, che a un certo punto ricorda i Daemonarch del loro vecchio amico Fernando Ribeiro, e l’ultima The Raven, di cui abbiamo già parlato. L’album in sé è comunque un blocco unico, come Rituals, e non un disco di canzoni tendenzialmente indipendenti tra loro come negli album ancora precedenti. La mia sensazione è comunque che con The Heretics i Rotting Christ abbiano esaurito il filone sfruttato negli ultimissimi dischi, e che dal prossimo lavoro si andrà in una nuova direzione, per quanto sempre nei limiti dello stile caratteristico della band. Certo, come detto le pietre angolari del loro suono rimarranno le stesse, ma ho come l’impressione che dal prossimo album si potrà parlare dell’inizio di una nuova era della band greca. Magari mi sbaglio, o magari no. Durante l’attesa però consiglio di ascoltare a fondo The Heretics, che dà il meglio di sé dopo ripetuti ascolti: dategli fiducia, e non commettete l’errore di mollarlo subito. (barg)

11 commenti

  • “Durante l’attesa però consiglio di ascoltare a fondo The Heretics, che dà il meglio di sé dopo ripetuti ascolti: dategli fiducia, e non commettete l’errore di mollarlo subito”.

    Questo è vero per tutti i dischi dei Rotting Christ: a un primo ascolto è facile sottovalutarli, già al secondo si scoprono delle cose interessanti, poi col terzo si entra nel loro mondo.

    I Rotting Christ sono una delle realtà più personali del metal estremo e sono sempre stati un gruppo da trattare a parte, cosa che accomuna solo i grandi, indipendentemente dalla corrente a cui appartengono. “Passage to Arcturo” per l’epoca era già fantascienza e fece scuola sia al black che al death. Da lì in avanti è stata sempre una progressione forse discontinua, ma di certo importantissima per l’evoluzione del metal moderno.

    The Heretics è un disco che ha molto in comune con la produzione degli ultimi anni, quindi non inventa nulla di nuovo. C’è una certa insistenza con recitativi ed effetti vari, che in alcuni casi sono usati con intelligenza e creano una profondità sonora efficacissima, ad esempio in “The new messiah”.

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    • per chi come me non ha mai avuto modo di ascoltare i Rotting Christ, da quale disco conviene iniziare? In passato ascoltai giusto “A Dead Poem”, carino ma non mi accese un interesse tale da andarmi a pescare i vecchi lavori. Qualche consiglio?

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  • Bene, almeno qua mi sento a casa.
    Ho letto una miriade di recensioni e commenti talmente tanto negativi da chiedermi se avessimo ascoltato il medesimo album. Ma ad avercene di più band con le peculiarità dei Rotting Christ, che possono pure non piacere, ma la qualità di fondo è innegabile.
    Insomma, non capisco cosa abbia deluso della release, io sinceramente sono andata a colpo sicuro come al solito, e concordo col fatto che cresca man mano che si ascolta, come è stato anche per Rituals in precedenza.

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    • “There’s nothing here the group haven’t done better in the past”.
      Al netto delle iperboli trovo condivisibile questa considerazione. È un disco stanco e manieristico, dal mio punto di vista.

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      • Stanco e manieristico non sono sinonimi di brutto o deludente.
        Mi chiedevo il motivo di una percezione del brutto e del deludente.
        Se ascolto i Rotting Christ so già cosa mi aspetta a livello generale, pur con tutte le sfumature che volta in volta vestono il loro sound. Probabilmente è un album stanco, ma è comunque un album di livello superiore rispetto alla media.
        Per me i RC sono alla stregua dei Megadeth post Risk, a livello di uscite, alcune eccezionali, alcune discutibili ma sempre di un livello alto rispetto al marasma di merda che hanno attorno.

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  • @Saturnalia. Sì, se lo vedo sincronicamente è un disco superiore alla media (delle band storiche).
    Diacronicamente è il loro disco più debole. Per dire: Hallowed Be thy name (come cazzo ti viene in mente, tra l’altro, di scegliere un titolo tanto autolesionistico…) ti pialla l’uccello come ‘na bambola, tanto è noiosa.
    Poi ci sta il calo dopo 12/13 dischi. È vero: è una one-man band a livello compositivo. Alla lunga si sente. Poi: quanto ci hai potuto spendere in termini di tempo, tra un tour e l’altro? Mi viene pure da dire, però: chi cazzo te lo fa fare di pubblicare roba biennale? Non dico che devi fare come quella barzelletta dei Tool, ma…

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    • Ahahhahah si, capisco il tuo punto di vista, che è pur condivisibile, ma che non mi trova d’accordo. Penso sia una questione di approccio, io tendo a fare quadri molto generali anche coi singoli album. La cosa importante è che dopo 13 album siamo ancora qua a parlarne!

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