Avere vent’anni: MITHOTYN – King of the Distant Forest


Sono particolarmente contento di dedicare un Avere vent’anni ad un disco dei Mithotyn, band-meteora svedese autrice di un trittico micidiale di dischi tra il 1997 e il 1999 che poi è sparita nel nulla quando il fondatore e principale compositore Stefan Wienerhall decise di averne abbastanza del black e delle screaming vocals e conseguentemente si dedicò ad un power metal con venature folk fondando i Falconer.

Ma giustamente dei Falconer non ce ne po’ fregà de meno perchè siamo qui per parlare dei grandissimi Mithotyn e precisamente della loro seconda fatica King Of The Distant Forest, da molti (me compreso) considerato il punto più alto della loro discografia. Come accennavo prima, la band di Mjolby venne inserita sin da subito nel calderone viking metal, denominazione sempre molto controversa che ha generato sempre un sacco di discussioni su chi potesse avere diritto ad usare questo termine e chi no. In realtà, se vogliamo proprio usare questo termine in riferimento ai Mithotyn, è sempre più corretto parlare di viking black metal, ossia un black metal di stampo battagliero accompagnato da sporadici momenti legati al tipico folk nordico, ma senza mai perdere in ferocia e senza lasciarsi andare a terrificanti atmosfere da sagra paesana. Da questo punto di vista la titletrack in apertura è un compendio perfetto del suono dei Mithotyn: un delicato arpeggio che sfocia dopo pochi secondi in un black metal melodico in tipico stile svedese su cui si staglia il lacerante screaming di Rickard Martinsson, schema che si ripete in Hail Me, uno degli highlights assoluti del disco con un ritornello talmente evocativo da farti venire voglia d’imbarcarti su un drakkar vichingo spadone alla mano ed assaltare qualche sperduto monastero cristiano. 

La grandezza dei Mithotyn sta soprattutto nell’immediatezza, nel riuscire a sintetizzare in brani della durata media di 5 minuti epicità, pathos e melodia all’interno del tradizionale black metal di scuola scandinava, attraverso canzoni mai scontate o noiose come ad esempio la superlativa From The Frozen Plains (l’intreccio finale tra chitarra ritmica e solista è da pelle d’oca) o la doppietta Under The Banner – We March, in cui le tastiere giocano un ruolo preponderante creando atmosfere da brividi. Se proprio vogliamo trovare qualche difetto in questo album possiamo parlare della produzione non proprio eccelsa e degli ultimi tre brani che non sono proprio indimenticabili: tra questi ci metto anche la strumentale Trollvisa che perde nettamente il confronto con la meravigliosa Lost In the Mist contenuta nell’esordio.

Come anticipato in apertura, dopo il comunque ottimo Gathered Around The Oaken Table il sipario sui Mithotyn verrà definitiavamente tirato giù, e sinceramente dispiace, soprattutto perché un gruppo come gli Amon Amarth lo conoscono anche negli asili mentre i Mithotyn se li sono cagati così in pochi. Ma si sa, il mondo è una merda e non lo scopriamo certo oggi. (Michele Romani)

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