Titoli che la dicono lunga: GRAVE DIGGER – The Living Dead

Osservare il modo in cui gli anni passano per certi gruppi è veramente doloroso, e mi basta pensare a Tom Araya ed alla sua folta barba, sulla quale mi immagino orde di cani sciolti alla ricerca di sopravvissuti nel profondo di quello che ormai sembra tutto fuorché pelo imbiancato: una slavina di neve, che col suo inesorabile incedere ha appena distrutto un paesino montano, o magari dell’ innocente zucchero filato. Il problema è che da Christ Illusion in poi gli Slayer, i miei Slayer, sono entrati in quel vortice che trasforma il musicista in un mestierante, che entra in studio e registra l’album semplicemente perché lo deve fare. “Alterniamo un pezzo veloce ad uno più lento, qua mettici un bell’assolo che fischia, e non fatemi urlare perché oggi ho già preso due Moment Act: ehi Dave, vaffanculo. Quasi quasi riprendiamo Bostaph, che tanto ci dice di sì”.

Per i Grave Digger la situazione non deve essere poi tanto diversa, ed il momento in cui si sono trasformati nella meno brillante forma di sé stessi – e non a caso oggi parlano in continuazione di morti viventi, come mi fa notare su messenger il buon Cesare Carrozzi – è sicuramente collocabile a cavallo fra la retromarcia temporale offerta dall’album semi-omonimo, e The Last Supper. Già all’epoca mi suonavano tronfi e compiaciuti, e ricordo che avevo iniziato a criticarli con Excalibur, quindi una vita e mezzo fa. Quest’ultimo era pure un buonissimo disco, ma si capiva che erano completamente saliti sui binari del tutto calcolato, naturalmente in base a ciò che il bacino d’utenza vuole sentirti suonare; il tutto abbandonando la veemenza giovanile che hai finchè scrivi materiale inedito, e lo fai senza rendere conto a chi o cosa. Tutto sommato devo ammettere che, nel lungo periodo di degenza all’insegna dell’invecchiare male se non addirittura malissimo, il disco col titolo che scimmiottava il bellissimo The Reaper ed il penultimo Healed By Metal avevano comunque espresso cose apprezzabilissime. 

Il problema è che i Grave Digger, confrontati coi rinvigoriti Accept della reunion, sono davvero messi maluccio: la media di quasi un disco all’anno al costo di registrare nuovamente le primissime canzoni della carriera, e ad oltre vent’anni di distanza dall’ultimo album coi controcoglioni, Knights Of The Cross. Scadere ai limiti del mediocre e non rendersene nemmeno conto, una cosa che praticamente non ha prezzo specie se la fai a testa altissima; ma soprattutto vallo a dire ai Satan, che hanno ripreso il nome storico pubblicando ottimi dischi, e non se li sta ovviamente inculando nessuno. Oppure ai Manilla Road, che dal basso del dramma che hanno vissuto di recente mi piacevano più con le ultimissime cose piuttosto che in passato. Perfino Peavy Wagner mi sta sorprendendo, perché un caca-album a ripetizione come lui pare essere riuscito a rimettere in gioco una discreta e sana dose di entusiasmo nei Rage, e di farci percepire interessanti perfino i Refuge.

A dispetto della mia totale perdita di pazienza nei riguardi dei Grave Digger, Healed By Metal era ugualmente carino al netto dell’utilità di un nome come il loro, una volta azionato il pilota automatico a ridosso degli anni Dieci; e se proprio devo trovargli due difetti di numero, eccoli: una tracklist buttata giù un po’ troppo a tavolino – come ho detto sopra – dunque con un bilanciamento della tipologia dei brani ai limiti del poco credibile, e l’orrendo ritornello di Hallelujah, una roba che se fossero andati in Norvegia a suonarla dal vivo nel 1993 li avrebbero sepolti vivi insieme ai Paradise Lost. Ma almeno recuperava quel piglio anthemico, ora priestiano ora acceptiano, che già Return Of The Reaper faceva a lunghi passi presagire. Una cosa piacevole, dopo quindici anni di cori, cornamuse, gesù cristi che pasteggiano per l’ultima volta, concept storici e forever and ever vari che iniziavano sinceramente a stroncarmi tutti e due i coglioni. I Grave Digger – oggi – non sono affatto rinati, anche se devo sottolineare come già lo stesso Healed By Metal fosse un buon disco e niente di lontanamente clamoroso. Se un giorno ricorderemo il nuovo e autoreferenziale The Living Dead, lo faremo rovesciando lo standard canonico per cui un album ci rimane impresso nella testa a causa delle sue migliori composizioni. Il nuovo disco della band di Chris Boltendahl sarà celebre perché contiene la loro peggiore canzone di sempre, che tanto per cambiare si chiama Zombie Dance. Ma ne parleremo fra un po’.

The Living Dead è anche l’album che un membro storico come Stefan Arnold, uno che era dentro dai tempi di Tunes Of War, ha registrato per poi fuggire a gambe levate per starsene più tempo coi nipotini oppure perché si era reso conto di che cazzo avessero combinato con quella Zombie Dance. Inoltre, vi esorto a consultare le prime foto ufficiali del nuovo batterista, che se ho capito bene era il tastierista nonché il tipo che veniva inesorabilmente incappucciato, e che ora è stato preso da lì e messo alla batteria senza battere ciglio. E vedi di fare la doppia a elicottero! Marcus Kniep, così si chiama, somiglia terribilmente a Robert Flynn espressione accigliata inclusa, e la cosa mi ha inquietato a dismisura perché non vorrei ritrovarmelo di colpo sui social con un canale YouTube personale, mentre ci permette di vedere come prepara i pancakes, o mentre porta la mamma a fare le analisi. Sul disco ci sarebbe ben poco da dire, ha i soliti suoni standard degli album heavy metal odierni e il cantato di Chris è diventato monocorde ad un livello spaventoso: non azzarda più un urletto, e non si sposta da lì di un decimo di tono. Lo adorerò sempre per concetto, ma appare veramente in difficoltà e l’occasione per cui mi ritrovo perplesso non si chiama nemmeno palco: il fatto è che ha cinquantasei anni, e puoi solo constatare che le cose stanno semplicemente così, ovvero che non ci si può fare proprio niente. C’è chi ci arriva in un modo, e chi in un altro. Le canzoni, nonostante una sola sia capace di suscitare l’Orrore vero e proprio, sono di un livello decisamente inferiore rispetto a quelle di Healed By Metal, come se si fosse tentato di unire allo stile ottantiano delle recenti fatiche, un pizzico del Grave Digger sound del decennio che li portò alla ribalta. Ormai girano sempre intorno a quelle due o tre variabili, e non è detto che funzioni: se una Fist In Your Face ci appare genuinamente motorheadiana, un titolo come The Power Of Metal (che meriterebbe di essere bandito come la Ten Commandments Of Metal di appena un anno fa) riporta a galla i forever and ever che ho rammentato poco sopra, nonchè la non-sobrietà delle peggiori composizioni in studio della band tedesca, come – per intenderci – il materiale di Clash Of The Gods. A dire il vero, tolto Ballads Of A Hangman nutro relativi se non addirittura forti dubbi su tutto ciò che hanno inciso fra il 2001 ed il 2016, ma sono dettagli.

Si prosegue poi con Shadow Of The Warrior, che mi sento di menzionare perché è l’unica canzone in cui lo stile degli ultimi anni Novanta riaffiora, e lo fa senza lasciarsi alle spalle danni ingenti. È davvero carina, nulla di trascendentale ma almeno gode di un discreto chorus. Il problema lo sapete qual’è, perché dopo nove tracce per nulla brutte ma semplicemente innocue ed insipide, e delle quali solo un paio lasciano discretamente il segno, non puoi arrivare in fondo e ritrovarti al cospetto di Zombie Dance perché in un certo senso parti già debilitato. In pratica, trattasi di questa roba mezza folk che mi ha ricordato quella volta che, in una birreria di Montelupo Fiorentino, avevo esagerato con la birra e mangiato una cosa che si scrive tipo grobwurst, ma con quella “b” strana e allungata che per i tedeschi significa “doppia s” nella pronuncia. Consisteva in cinquecento grammi di carne di maiale con contorno di patate fritte e crauti, che al cospetto delle variopinte salse e dei due boccali da litro mi costrinsero ad una notte terribile nelle poco illuminate campagne empolesi. Sono certo che nel momento preciso in cui realizzai che mi stavo sentendo male, in sottofondo ci fosse uno schifo di canzone che vagamente mi ricordava ciò che i Grave Digger hanno tentato di imbastire proprio in Zombie Dance. Era davvero mediocre, ma allo stesso tempo anche molto migliore di essa: immaginatevi un crossover fra Rammstein e Dropkick Murphys con un bel tiro e degli strumenti onnipresenti che lì per lì, tant’ero malconcio, potevano essere zampogne come cornamuse ma tant’è che non avrei mai e poi mai potuto riconoscerli: come sarebbe diventato il metal se avessero vinto i nazisti, avrebbe azzardato Philip K. Dick. Zombie Dance è la versione brutta di quel misterioso brano, spogliata dell’anima tamarra dei Rammstein e riempita al suo posto con un vago retrogusto danzereccio che, nel videoclip, i morti viventi prendono benissimo incominciando a ballare di brutto; il tutto mentre il batterista rotea le bacchette e inscena, insieme agli altri, altre situazioni del genere. Con in mezzo al pandemonio generale questo assolo ganzissimo, e che non c’entra assolutamente niente. Considerando anche l’ennesimo crollo sotto l’aspetto delle copertine stesse degli album, chissà cos’altro ci tireranno fuori il prossimo anno.

La cosa di cui sono certo è che i Grave Digger abbiano stabilito – fin dai tempi di Excalibur – di assecondare i trend del momento per rimanere sul carrozzone dei nomi che contano. La cosa ha funzionato, mentre altri hanno dovuto temporaneamente chiamarsi prima Blind Fury, poi Pariah, infine Foto di gattini gratis per rimanere con estrema fatica a galla; adesso il giochino non funziona più e le cose si stanno rivelando per ciò che sono. E pensare che a metà degli anni Novanta, proprio questa band si era contraddistinta per la testardaggine con cui – rimettendosi a pubblicare dischi – aveva ripreso pari pari un genere che iniziava ad assumere le sembianze di un morto che cammina: ridandogli assoluto vigore, e diventando uno dei capostipite del movimento heavy metal intero grazie a perle come The Reaper. La vecchiaia inciderà pure, ma il declino è iniziato un po’ presto per il gruppo di Chris Boltendahl, e le sue scelte non appaiono sempre condivisibili. (Marco Belardi)

11 commenti

  • Boh, non capisco come, con internet e tutti i mille modi di trovare informazioni sul web, a sti tizi qua venga in mentre di chiamarsi GRAVE DIGGER. Possibile che non sappiano che c’è un’altra band con lo stesso nome, e sono anche molto più famosi?
    dovrebbero stare attenti, che rischiano anche una denuncia.
    E quei Grave Digger più vecchi, è davvero un peccato che si siano sciolti dopo Excalibur, che a me è comunque sempre piaciuto parecchio. Chissà quanto altro avrebbero potuto dare al metal

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  • Diedi un ascolto ad Healed by metal e lo trovai sconfortante. Tu dici che questo è pure peggio e quindi lascio perdere sulla fiducia. Da quando han preso il chitarrista col frangettone mi sembra ne abbiano azzeccate davvero poche.

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  • Caro Belardi, sono assolutamente d’accordo su tutto.

    Da grande fan dei becchini quale sono, stavolta c’è ben poco da fare. Sono riuscito a perdonargli le emorroidi a grappolo che mi causarono con “The Clans Will Rise Again”, sono riuscito a perdonargli di aver cacciato Thilo Hermann che poteva essere la via di uscita dallo stagnamento, sono riuscito a perdonargli troppe cose e la mia pazienza è arrivata a un limite. O forse è semplicemente che sono cresciuto, e quando avevo diciannove anni mi era più facile perdonare delle prove discografiche che non erano né carne né pesce.

    Il problema è che non sono nemmeno incazzato: vedere i Grave Digger ridotti in questo stato mi fa semplicemente una gran pena. Mi fa pena vedere Chris Boltendahl che probabilmente vorrebbe solo andare in pensione e continuare ad allenare la squadra di calcio del figlio che invece si ostina con cazzate del calibro di “The Power of Metal”. Basta Chris, non lo capisci di essere ridicolo? Non capisci che là fuori ci sono ragazzini (coff coff Visigoth) che riescono a fare cento volte meglio quello che tu ti ostini a fare oggi?

    Non riesco a capire se tutto questo sia una operazione di marketing o cosa. Sta di fatto che “The Living Dead” è ciò che è: una minestrina riscaldata per vecchietti, buono solo a fare un disco nuovo nella discografia dei Grave Digger. Penso anche che Boltendahl, in fondo, sia sempre più solo in fase di composizione, incapace di tirare dentro gli altri musicisti che preferisce avere come marionette al suo servizio. Invoco la casa di riposo per tutti e torno ad ascoltarmi “Heart of Darkness”.

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    • purtroppo in fase di composizione invece coinvolge quella gran pippa di Axel Ritt, che se invece di far finta di essere un guitar hero rimanesse chiuso dentro a una birreria a mangiare grosswurst non farebbe un soldo di danno

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  • Cristo, ho ascoltato Zombie Dance e come direbbe il buon Dr. Cox ” sto soffocando e contemporaneamente vomitando, sto’ SOFFOMITANDO”.

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  • p.s. per il Belardi; la birreria era il mitico Maes delle Fiandre?? C’ho passato la giovinezza… Stinchi di maiale e patate ottimi , birra a caduta e prezzi popolari!

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    • No il lowengrube di Limite di Capraia! Al Maes ci sono andato per anni poi iniziarono a anmacquare… era bello quando ci suonava fissa gente dal vivo in quel palco 2 mt x 2, e facevano la serata grigliata all you can eat, una sera ci inventarono che non avevano più carne in cucina altrimenti gli si faceva chiudere il locale 😂😂😂 al lowengrube ho sempre mangiato e bevuto bene

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  • boh, Zombie Dance mi pare solo uno scherzaccio di non gran gusto ma fatto giusto per sorridere, non direi che gli stessi GD gli abbiano affidato altra funzione che quella, quindi non lo considero rappresentativo dell’album. Fatto salvo che non stanno invecchiando benissimo, ho trovato The Living Dead leggermente migliore, come scrittura, dello zoppicante Healed By Metal, ma la mia è solo una impressione soggettiva, e può darsi che, essendo praticamente coetaneo di Chris, ( anxi, un po’ più vecchio….) si tratti solo di indulgenza senile ….

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  • Belardi, tutto vero. Ma togli l’apostrofo da ” qual è”, amico mio.

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  • Più che i dropkick murphys, questa zombie dance mi ricorda i gogol bordello o la musica balcanica, che è bella e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni (cit.).
    Aldilà dei sofismi, è un pezzo del cazzo e i Grave Digger si sono fritti da un pezzo. Non li ho mai adorati, ma li ascoltavo volentieri. Adesso l’idea di ascoltare un loro disvo intero mi fa salire la noia preventiva

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