Avere vent’anni: agosto 1998

ANATHEMA – Alternative 4

Charles: Non è affatto semplice confrontarsi con la complessa e costante evoluzione occorsa allo stile degli Anathema nel corso degli anni, lo diciamo spesso. Allo stesso tempo è difficilissimo rispondere alla domanda delle domande: qual è l’album migliore? Alla fine tutto il nostro chiacchiericcio sul metal ruota sempre intorno a questa banalissima domanda. Io mi sono trovato spesso a cambiare idea riguardo agli inglesi e facendo uno sforzo di semplificazione enorme mi viene da dire che dagli esordi fino ad Eternity sono stati una cosa, da Alternative 4 in poi un’altra. Dunque è questo il vero album della svolta? Impossibile a dirsi, credo, senza farne un trattato enciclopedico. Se alla prima domanda oggi mi sento di rispondere con The Silent Enigma, rispetto alla seconda non credo di avere ancora le idee ben chiare. Ma penso che se gli Anathema sono diventati quello che sono oggi (a proposito, adesso si scrive ana_thema, li mortacci loro) è principalmente colpa di Alternative 4. Allo stesso tempo, il merito di aver avuto dischi come A Fine Day To Exit, A Natural Disaster, We’re Here Because We’re Here e, soprattutto, Weather Systems lo si deve principalmente ad Alternative 4. Da questo punto in poi prosegue inarrestabile l’allontanamento sempre più definitivo dal doom e dal metal in senso stretto, il suono si fa più morbido, sopraggiunge un pessimismo di diversa fattura che si traduce in un suono più pulito, minimale, romantico fino alla sua apoteosi, ovvero al già citato Weather Systems. Più in alto di così non si poteva andare. Tanto è vero che dal successivo il calo era già palese e l’ultimo nato in casa Cavanagh è una boiata.

ROB ZOMBIE – Hellbilly Deluxe

Stefano Greco: Divertente senza rinunciare alla pesantezza, perfetto sia nei riferimenti ad horror e fumetti sia nei suoni e nei ritornelli. Hellbilly Deluxe è la definizione stessa di “bel dischetto”, il classico album senza difetti ma che non possiamo certo definire come indimenticabile. Il punto di partenza sono ovviamente gli White Zombie e le loro ritmiche industrial (o se vogliamo proprio dance), ma quando si rallenta e l’atmosfera si incupisce si finisce dalle parti di Marilyn Manson: un atipico scambio in cui il discepolo finisce per influenzare il maestro. Hellbilly Deluxe è stato in rotazione fissa in macchina per un’estate fino a che qualcosa di meglio arrivò a togliergli il posto spedendolo in archivio a tempo indeterminato. Ogni tanto però è bene ritirarlo fuori, anche perché alle feste Dragula fa ballare tutti.

ANCIENT RITES – Fatherland

Marco Belardi: La mia fissa per gli Ancient Rites di Gunther Theys è durata qualche anno, per poi svanire quasi del tutto in seguito al silenzio che seguì Rubicon. Il punto è che hanno fatto un album poco tempo fa e non me lo sono filato nemmeno di striscio. Ma è stata una cosa molto intensa, non posso negarlo. Sfortunatamente non cominciò qui, perché in quell’annata costellata di grandissime uscite ignorai completamente il nuovo disco degli Ancient Rites, che per il sottoscritto erano semplicemente quel gruppo belga che – in Blasfemia Eternal – aveva scritto quella canzone dove c’erano dei sonori bestemmioni in italiano. Recuperato in seguito, Fatherland mi parve un bellissimo disco penalizzato forse da una produzione ancora un po’ approssimativa: Aris e Mother Europe erano molto belle, il riffing li tirava fuori con forza dal calderone del black metal puntando su soluzioni molto vicine al metal classico, ed il lavoro di tastiera era già curato con una certa attenzione. C’era anche una title-track da paura, ma è Dim Carcosa il loro album che mi farà innamorare di loro per la sua innata perfezione; tre anni ancora e i suoni sarebbero stati quelli di un gruppo giunto definitivamente a maturazione, i classici si sarebbero inseguiti senza sosta e non avrei più saputo dire quali sono le canzoni che preferisco in un loro lavoro. Ottimo antipasto in vista della loro esplosione, e netta trasformazione del sound che già in Blasfemia Eternal ci mostrava le avvisaglie di una mutazione di questa portata. Bell’album, riscopritelo al più presto anche se nella seconda metà cala più che sensibilmente, nonostante ci fossero cose goduriose come la pesantissima 13th Of October 1307 e l’incalzante Rise And Fall (Anno Satana).

OPHTHALAMIA – Dominion

Charles: Dominion fu il testamento di It, il compianto nano malefico che ha abbandonato le spoglie mortali lo scorso anno per occupare il seggio all’inferno che si è guadagnato in vita. Dei tre dischi degli Ophthalamia questo è indubbiamente il migliore: distillato di vecchia scuola Dissection, cattivo quanto basta, venato di black & roll da renderlo sporco il giusto, dove però il riffing melodico tipico del marchio svedese di quegli anni la fa da padrone e te lo fa riascoltare un milione di volte di seguito. Anche se a fartelo amare incondizionatamente è la prestazione vocale di All, epica e maligna ma soprattutto onnipresente, volta a coprire ogni possibile “buco” strumentale. 38 minuti di puro, nero, imprescindibile black metal, con tanto di intro e outro recitative ed atmosferiche, capaci di introdurti in un mondo oscuro e darti l’impressione di star sfogliando un libro di magia nera più che ascoltare musica. Non posso dirvi altro che di reperirlo immediatamente e di calarvi nello spirito di quei tempi senza compromessi: I might live a while and then be gone/ Life has a price we all have to pay/ It really makes me wonder if it’s worth to carry on/ I might die but the evil will always be there.

THY SERPENT – Christcrusher

Michele Romani: Quando penso a gruppi che hanno raccolto molto meno rispetto a quanto seminato mi vengono sempre in mente i Thy Serpent, band dal grandissimo potenziale che ha sempre ruotato attorno alla figura di Sami Tenetz, noto anche per essere il fondatore della Spikefarm Records (etichetta sorella della Spinefarm). La band finlandese sorprese tutti nel 1996 con l’esordio Forest of Witchery, disco veramente splendido che si muoveva tra dark e black metal melodico, purtroppo passato piuttosto inosservato anche per la parecchio insolita scelta della band di non mettere né il nome della band né il titolo dell’album in copertina, cosa che ha riguardato anche questo Christcrusher. Rispetto alla magia dell’esordio questo disco è senza dubbio un passo indietro, i brani si fanno più snelli e più d’impatto con una vena molto meno melodica e più aggressiva, anche se il songwriting comunque risulta abbastanza godibile pure senza particolari picchi. Dopo l’ep Death del 2000 la band finlandese è scomparsa nel nulla, anche se da Metal Archives risulta ancora attiva: staremo a vedere se nel futuro ci dovremo aspettare altro da loro.

AYREON – Into the Electric Castle

Charles: Quando parlo di Lucassen mi trovo sempre a fare questi discorsoni impegnati e altisonanti. Questa volta provo a tenere il livello più terra terra, che già il prog dalla gente normale è vissuto come una rottura di coglioni, figuriamoci quando per parlarne uno si mette a fare il trombone espertone de ‘sta ceppa. Into The Electric Castle è proprio un disco per appassionati, per quanto molto più scorrevole di altri, quindi non vi ci avvicinate proprio se non siete nella giusta disposizione d’animo, sentite a me. Si tratta di due dischi di quasi due ore di non-metal (a questo giro l’olandese ci ha infilato principalmente il rock, il folk e il blues) nelle quali viene raccontata una delle classiche fiabe multidimensionali, fantasy e weird che piacciono tanto al pennellone genialone (con duecento personaggi ed altrettante collaborazioni) e che non vi sto a raccontare sennò finiamo domani. Detto ciò, a me nel suo complesso il Castello Elettrico piace e pure un botto (c’è una deliziosa predominanza della voce di Anneke in molti pezzi che gli dà quel quid in più e che, credete a me, regge da sola il 50% dell’album) ma preferisco gli Ayreon nella loro veste metal e/o cervellotico-onanistica, quella che ti fa venire il mal di testa. Se volete farvene un’idea senza spararvi sui maroni ascoltatevi ‘sti pezzi: Amazing Flight, Tunnel of Light e The Castle Hall.

AGATHODAIMON – Blacken The Angel

Marco Belardi: Parallelamente ai metodi che mi hanno portato a conoscere i Sentenced col loro Frozen, ossia un titolo che acclamerei fino allo sfinimento, il mio girovagare per i siti web ufficiali delle grosse etichette europee di fine anni Novanta – in assenza dei più completi portali porno odierni – mi portò a scaricare un paio di pezzi degli Agathodaimon. Mi pare di essermeli trovati pure in una di quelle compilation intitolate Death Is Just The Beginning, ma non ne sono sicuro al cento per cento. Quello che è certo è che i vampiri tedeschi, sulla scia dell’enorme successo riscosso dai Cradle Of Filth tennero una linea aziendale tutta propria che prevedeva l’utilizzo ‘till death di copertine bluastre, e di qualche sporadico e ovviamente incomprensibile titolo in rumeno. L’esca principe che mi fece acquistare un loro album, che era esattamente quello di cui sto scrivendo, fu Ribbons/Requiem, un brano che nonostante una palpabile carenza di arrangiamenti e accorgimenti compositivi, centrava totalmente il bersaglio in dinamismo e atmosfera. Me la ricordo ancora a distanza di due decenni come se l’avessi ascoltata proprio ieri, e direi che pure Banner Of Blasphemy era carina. In pratica il loro cosiddetto black metal sinfonico giocava molto sui tempi medio-lenti, e con l’ausilio di rare accelerazioni lasciava il dominio a melodie chitarristiche che per me erano figlie più di un Gregory Mackintosh che delle composizioni dei succhiasangue inglesi. Col successivo Higher Art Of Rebellion si sarebbero confermati una band di livello medio-basso, tenuta a galla dall’euforia del momento e per oltre dieci anni insieme a colleghi più o meno fortunati (Anorexia Nervosa, Gloomy Grim), e associata sempre più spesso al filone gothic metal dei primi duemila man mano che nuove pubblicazioni vedevano la luce. Ma Blacken The Angel resta l’unico capitolo che, con la loro firma impressa in copertina, consiglierei di ascoltare anche per la sola curiosità di avere aggiunto un’altra tacca al calcio del fucile.

Trainspotting: Scoprii gli Agathodaimon grazie ad una doppia compilation della Century Media chiamata Feuersturm, in cui era presente quasi tutto il gotha del black metal dell’epoca (da Immortal ad Enslaved passando per Mayhem, Marduk, Naglfar e Cradle of Filth). Il gruppo in oggetto era presente con Banner of Blasphemy, un pezzo clamoroso con dei riff devastanti che ancora mi ritrovo a canticchiare quando porto fuori il cane a fare la pipì. La canzone fu poi acclusa nel presente Blacken the Angel, il debutto, ma completamente risuonata in una versione arrangiata in modo diverso e decisamente meno old school. Il risultato non fu dei migliori, tanto che dopo aver preso l’album ci rimasi talmente male che non riuscii ad ascoltarlo più di tanto. Consiglio però di ripescare in qualche modo la prima versione (che credo possa essere definita demo version) e cantare a squarciagola il testo in rumeno godendo come dei ricci. Se gli Agathodaimon avessero continuato su quella strada, sarebbero diventati un gruppo della madonna; invece si sono trasformati nell’ennesimo gruppo di black melodico un po’ scemo che ogni tanto imbroccava qualche buona idea.

ODIUM – The Sad Realm of The Stars

Michele Romani: Tra le gemme dimenticate della seconda ondata black norvegese anni ’90 non si può non considerare The Sad Realms of The Stars, primo e unico full lenght degli Odium uscito per la Nocturnal Art di Samoth. Il legame con l’Imperatore non si ferma qui, sia per il fatto che il cantante, chitarrista e compositore della band era un certo Secthdamon, noto ai più essere il bassista live negli show di reunion degli Emperor, sia per il genere proposto, ovviamente un symphonic black metal old school come si suonava una volta, non certo le pacchianate che vanno tanto in voga adesso. Nonostante gli inevitabili rimandi agli eroi del Telemark, gli Odium riescono comunque riescono a personalizzare la loro proposta grazie ad una struttura dei brani per nulla banale ed una marcatissima componente melodica che rende la definizione “black sinfonico” forse un po’ troppo riduttiva. Winterpath e Towards The Forest Horizon sono probabilmente due tra i pezzi più significativi di un disco tassativamente da riscoprire per gli amanti del black metal vecchia scuola, magari su youtube perché purtroppo il cd è introvabile da svariati anni, a meno che non vogliate investire una somma cospicua su ebay o discogs.

ELEGY – Manifestation of Fear

Charles: Se non li conoscete e volete capire chi veramente fossero gli Elegy, non buttate il vostro tempo ed andatevi ad ascoltare subito Lost: quello sì che fu un disco della madonna senza se e senza ma. Tutto il resto, venuto prima e dopo, può essere tutto sommato trascurato da chi non pratica molto il genere. Ve lo dico da fan, lasciate perdere pure Labyrinth of Dream e Supremacy, che a modo loro spaccavano i culi alla media. Ignorate anche State of Mind (bei pezzi ma orfani della line-up originale) e fate finta che questo Manifestation of Fear non esista (no, non fa proprio schifo, ma insomma se ne fa a meno serenamente, a differenza dei successivi due che sono merda vera). Ve lo dico da padre (cit.).

SOLITUDE AETURNUS – Adagio

Ciccio Russo: Quarto, e al solito enorme, disco di uno dei migliori gruppi doom degli anni ’90. Discepoli dei Candlemass (nei quali il cantante Robert Lowe avrebbe poi militato dal 2006 al 2012, incidendo, fra gli altri, lo splendido Psalms for the Dead), i Solitude Aeturnus con Adagio sembrano aver prestato un minimo orecchio al revival settantiano che stava prendendo piede nella loro America. Le atmosfere restano cupe ma diventano meno oppressive, la durata dei pezzi si abbassa, la loro struttura si asciuga e si punta più sul groove (difficile tenere fermo il capo durante una Idis o una Believe) e su riff rocciosi e incisivi. E anche nei momenti più canonici, come Days of prayer e Lament, arriva un assolo o un’accelerazione a riscuotere dal torpore funereo. Non male nemmeno l’esperimento neofolk (diciamo così) di The Fall. Un all killer no filler al cubo. Purtroppo all’epoca per dischi così classici non era esattamente aria e, dopo Adagio, i texani si sarebbero presi una lunga pausa di riflessione fino al 2006, anno dell’ancora una volta eccellente Alone, dopo il quale sarebbe arrivato, ahinoi, lo scioglimento.

AA.VV. – Stoned Revolution

Stefano Greco: Insieme a Burn One Up uscita l’anno precedente, Stoned Revolution è la raccolta che delinea e definisce lo stoner rock come sottogenere a sé stante. Ma se la compilation della Roadrunner lo faceva in modo implicito, Stoned Revolution ne è il manifesto in modo esplicito. A partire dal titolo e dalle lunghe note di copertine nelle quali Lee Dorrian dà la sua benedizione al movimento e si erge a nume tutelare dello stesso. La copertina di Frank Kozik fa il resto, associando al filone anche una iconografia semi-ufficiale. In settanta minuti vengono presentate una quindicina di band che all’epoca occupavano una terra di mezzo tra underground e semi-anonimato. Rivista oggi quella lista di gruppi è impressionante, tutta roba da considerare come minimo clamorosa quando non proprio essenziale. Si inizia con i Kyuss (oramai sciolti ma già storicizzati nel ruolo di padri nobili), seguono a ruota Nebula, Orange Goblin, Acrimony, Slo-Burn, Sleep, Goatsnake, Electric Wizard, Spiritual Beggars, The Heads e altre cose fichissime. Ci stanno addirittura gli Shine che poi altro non erano che la prima incarnazione degli Spirit Caravan di Wino. Il livello è questo. L’ho ripreso in mano in questi giorni e rileggendo i credits ho notato una piccola nota di copertina alla quale non avevo mai dato alcuna importanza: “Complied by Walter Hoeijmakers”. La prima embrionale edizione del Roadburn sarebbe stata neanche sei mesi dopo, un vero pezzo di storia.

THEATRE OF TRAGEDY – Aegis

Charles: Spesso si fa un uso eccessivo ed errato della parola “capolavoro”. In questo caso, invece, ci sta tutto. Come anche a proposito del precedente Velvet Darkness They Fear. Riuscire a trovare un preferito tra i due è una pura questione di sensibilità personale. Io, ad esempio, negli ascolti casuali gli antepongo sempre questo, col suo essere intrinsecamente etereo ed evanescente, con quella impalpabile voce di Liv Kristine, con le sue chitarre registrate bassissime e mai protagoniste, coi suoi toni piani dove ogni strumento recita la sua poesia e trasporta la melodia in funzione del sublime duetto di voci. Aegis è ad un passo dalla darkwave, anzi, si può dire che di metal non abbia più nulla in sé. Ascoltatevi Loerelei e Angelique per farvi un’idea di cosa sto dicendo. Ricordo che anche il booklet era un qualcosa di notevole. Era un bel modo di vivere la musica. Saudade a parte, c’è da aggiungere che la poesia dei Theatre of Tragedy finisce con la fine del mirabile decennio. Con Musique cambieranno abbastanza stile, spingendo parecchio sull’elettronica e tirando fuori qualcosa di carino (se preso a sé stante), ma anni luce distante dal recente passato, tanto da rappresentare uno stupro per le nostre orecchie abituate a contanta arte. Inoltre fu un totale errore di immagine e di concept. Per capirci, i ToT, che fino al quel momento per fermare la fame ci avevano servito fois gras e Sauterne a merenda, inizieranno a parlare di apericene proponendoci finger food e spritz.

MORTUM – The Druid Ceremony

Michele Romani: Sul finire degli anni ’90 stavo totalmente in fissa con le produzioni della Invasion Records, piccola label tedesca oramai inattiva che ha potuto annoverare nel suo roster gente come Darkseed, Godgory, Vargavinter e soprattutto due bands immense come Mithotyn e Gates Of Ishtar, che non ho mai ben capito come hanno fatto a cagarseli così in pochi. Tra i nomi “minori” c’erano questi svedesi Mortum (nome non proprio azzeccatissimo visto la miriade di altre bands che hanno avuto la stessa idea) che pubblicò nel 1998 questo primo album The Druid Ceremony. Il disco si muove sulle coordinate di un death metal melodico con qualche rimando black e il cantato che si suddivide equamente tra il classico scream e la soave voce femminile di Tinna Karlsdotter. Non scherzo se penso che questo lavoro lo conosceremo io ed altre tre persone, ed è un peccato perché nonostante una produzione totalmente ovattata la band dimostra di saperci di fare, dando vita ad atmosfere che ti trascinano in mondi immaginari con pezzi come Punisher o Lady Lost che vi assicuro non in molti sono in grado di scrivere. Purtroppo questo è un altro di quei gruppi che dopo il primo disco scomparirà nel nulla, ma vi invito comunque a riscoprire questo lavoro perché potrebbe essere tempo ben speso.

ANGEL DUST – Border of Reality

Charles: Ricordo che questo disco fu incensato parecchio quando uscì. Se non vado errato, lo stesso Metal Shock lo valutò benissimo, credo che fu addirittura top album o qualcosa del genere. Ad ogni modo io, che mi fidavo abbastanza del giudizio del MS cartaceo, lo presi a scatola chiusa, anche perché questo gruppo, che non avevo mai sentito nominare, veniva presentato come una storica band della madonna che bisognava conoscere a tutti i costi e bla bla bla. Ammetto, però, che il motivo reale che mi spinse a comprarlo fu il fatto che si chiamasse come il mio disco preferito dei Faith No More e che nella track list c’era un un pezzo intitolato No More Faith, quindi mi ero fatto un film tutto mio. Alla fine non ci azzeccavano niente coi suddetti, però il disco lo apprezzai pure parecchio e solo adesso mi rendo conto di quante volte lo abbia ascoltato all’epoca, perché riprendendolo per l’occasione dopo una marea di anni ancora mi ricordo ogni nota, pure i testi. Border of Reality ha un bel tiro complessivo ma, valutandolo a mente fredda, ha veramente tanti punti di caduta ed ingenuità così palesi che penso la prossima volta che lo riascolterò sarà al suo quarantennale, inoltre ho fatto una discreta fatica a finirlo. Ad ogni modo, ammetto tuttora la mia ignoranza sulla band perché, nonostante mi fosse garbato, non andai né ad ascoltare i dischi precedenti, né i successivi.

13 commenti

  • Quanto cazzo è bello Weather Systems

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  • Bhè, e the sound of perseverance? Ve lo siete dimenticati?

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  • Gli Anathema… ricordo ancora che li rifiutai per pregiudizio perché leggevo recensioni entusiaste che parlavano di allontanamento dal rock, di Pink Floyd, di psichedelia… Io che all’epoca stavo avvicinandomi al gothic e al doom cercavo opere più quadrate, per cui anche Aegis non mi piacque mai visto che ormai non era più metal ma pura darkwave (Raymond ammise che lui stesso aveva smesso di ascoltare metal). Se ci penso oggi che gli Anathema sono la mia band preferita, a che cosa mi sono perso….

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  • Quanto cazzo è bello Dominion degli Ophthalmia. È uno di quei dischi che ascolto ancora oggi, almeno 3, 4 volte all’anno. Con grande piacere. Bellissimo anche l’unico album degli Odium.

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  • Tra i dischi degli Anathema, quello a cui ritorno sempre è Alternative 4. Non lo so, sarà che è stato la colonna sonora dei miei periodi bui post-adolescenziali, ma è quello che più sento mio. Degli Opthlamia ricordo che un amico mi fece comprare Dominion ad un Wacken dei primi anni duemila, decantando lodi a non finire, ma non mi ha mai preso più di tanto…grazie per la segnalazione di questa compilation stoner, non la conoscevo.

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  • Ah un’altra cosa, ma era Mats Leven il cantante dei SE? Pensavo fosse John Lowe o come si chiama, che ha cantato anche in Psalms…. Leven si è unito ai Candlemass dopo l’album….

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  • Anche se non ve l’ho mai detto io vi voglio bene. Tutto ciò premesso Alternative 4 meriterebbe una tesi di laurea tant’è enorme. Non ve la potete sbrigare con un trafiletto così striminzito!

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  • Non me ne sono accorto a tempo debito ma segnalo: 7 maggio 1998, Dawn – Slaughtersun (Crown of the Triarchy). Dai, su…fate qualcosa per riparare.

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