R.I.P. Mark Shelton [1957-2018]

È morto Mark Shelton. Non so da dove cominciare, davvero. Posso dire che la notizia mi è arrivata proprio mentre stavo mettendo ad asciugare la mia maglietta dei Manilla Road che avrei dovuto indossare domani sera, al loro concerto al Dagda. Già, perché domani avrebbero dovuto suonare qui in provincia di Pavia, e io ero ovviamente fomentatissimo dal momento dell’annuncio. Quella maglietta l’avevo comprata due mesi fa, ad un concerto a Varsavia a cui ero andato apposta per loro, insieme a Piero Tola. Non ho mai scritto il report di quel concerto. Mentre ero lì mi venivano in mente mille cose da scrivere, ma una volta tornato a casa mi è passata totalmente l’ispirazione. È difficile raccontare quell’esperienza: ho assistito a centinaia (migliaia?) di concerti, ma quello dei Manilla Road fa totalmente storia a parte. Era la prima volta che li vedevo, e sono quantomeno contento di averli visti in quella situazione. Un buco scuro e minuscolo al piano terra di un tugurio dell’epoca sovietica, col palco alto trenta centimetri e una capienza di poche decine di persone. Loro che suonano praticamente in mezzo a noi, una scaletta fatta quasi solo di pezzi risalenti a trenta-trentacinque anni fa, eseguiti con una passione e un fomento tali da farli sembrare un gruppo di ragazzini che portavano quei pezzi in giro per la prima volta. Ho visto quasi tutto il concerto con un ginocchio sull’amplificatore, prendendomi calci, ginocchiate, gomitate e pugni nella schiena dal pogo che è riuscito a svilupparsi anche in quella manciata di metri quadrati alle mie spalle stipati all’inverosimile. Non ricordo un’esperienza simile in tutta la mia vita: lo stato in cui mi trovavo era molto simile a quella del nirvana, o – per dirla in termini occidentali – una trance non indotta da assunzioni di chissà quale sostanza ma semplicemente dalla felicità e dal senso di EPICA possente che veniva fuori da quelle note. Mi ero messo proprio tra Bryan e Mark, del resto distanti tra loro appena mezzo metro, e quest’ultimo a fine concerto è venuto proprio da me per darmi il suo plettro. Quel plettro ce l’ho ancora nel portafoglio, dove tengo le monetine, e a distanza di più di due mesi non ho avuto ancora cuore di riporlo in qualche cassetto. È un plettro semplicissimo, senza loghi o altro, probabilmente comprato in stock a due spiccioli in qualche anonimo negozio di Wichita. Adesso lo terrò come una reliquia, ma secondo me sono proprio cose come questo plettro a far capire la grandezza dei Manilla Road. 

Vedete, la nostra musica è morta. Ma mica da adesso: saranno almeno quindici-vent’anni. Si va avanti ripetendo più o meno le stesse cose, che possono anche essere bellissime, ma che cercano sempre di replicare le sensazioni e le intuizioni degli anni Ottanta-Novanta, quando davanti a sé i musicisti avevano uno spazio sconfinato in cui scorazzare stilisticamente, in totale libertà. Quella libertà è finita, così come l’ingenuo sense of wonder che accompagnava i dischi ora considerati classici del genere. Uno dei pochissimi gruppi che ancora portava dentro di sé quel sense of wonder erano proprio i Manilla Road. Mark Shelton, a sessant’anni suonati, era ancora il ragazzino che passava le giornate immerso nelle edizioni economiche dei racconti di Lovecraft, di Poe, di Howard, di Moorcock e via dicendo. Non aveva mai perso la sospensione d’incredulità che di solito viene prima infiacchita e poi spazzata via dalla maturità. E ogni qual volta imbracciava la chitarra, riproduceva quelle sensazioni infondendole di una passione e di una credibilità difficilmente riscontrabile in un gruppo di adolescenti, figuriamoci in un sessantenne con una vita difficile alle spalle. Ai Manilla Road non è mai importato di darsi un tono, di tirarsela da gruppo storico e seminale quale erano: suonavano ovunque, negli scantinati, nei locali con cinquanta persone di capienza, nelle pizzerie, nei garage dismessi, sempre con la stessa attitudine. Loro ci ricordavano sempre da dove veniamo, chi siamo e per quale motivo amiamo questa musica e questo approccio alla vita. Il concetto che il metal non è solo musica ma uno stile di vita non è mai stato incarnato con tanta convinzione da nessun altro. E in un mondo dove l’ultimo gruppo scrauso ci tiene a mettere il proprio logo sui plettri, per giocare a fare la rockstar, Mark Shelton andava in giro con dei pezzi di plastica grigia. Anche perché i pochi soldi che tirava su con i Manilla Road probabilmente se ne andavano tutti in poster di Frank Frazetta e cofanetti in edizione limitata di Clark Ashton Smith. Io quando ero fuorisede all’università mi riducevo spesso a mangiare pasta al burro e scatolame perché spendevo tutto in dischi, libri e cose del genere. Mark Shelton non ha mai smesso di essere così.

Per concludere questo sfogo sconnesso, ci tengo a fare una mezza rivelazione che poi è anche un rimpianto. Noi ci terremmo davvero a fare un festival di Metal Skunk. Vorremmo fare una cosa piccola ma appassionata, niente di chissà cosa, ma pensiamo davvero che sarebbe una cosa carina da fare. Il nostro sogno però era di far venire i Manilla Road come headliner. Questo è. Potrei scrivere mille altre cose, ma sinceramente non so neanche quanto mi vada. L’unica certezza è che non solo domani i Manilla Road non verranno a Pavia, ma non suoneranno mai più da nessuna parte. Neanche al festival di Metal Skunk. Andare a Varsavia due mesi fa è stata una delle scelte migliori che abbia fatto in vita mia. Ti sia lieve la terra, Mark, e quando incontri Crom raccontagli il segreto dell’acciaio, così che le porte del Valhalla ti vengano spalancate. (barg)

8 commenti

  • La vita è una merda, per gli atri…a noi è andata bene: siamo metallari. Quest’uomo starà già suonando nel Valhalla, luogo che si è meritato tanto tempo fa.
    Festival di Metal Skunk S.U.B.I.T.O.

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  • Bargone senatore a vita.

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  • Come non approvare tutto? Forza col Festival, presente.

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  • È morto praticamente su di un palco, con la chitarra al collo. Come Lemmy. Come meritano di morire i Grandi.

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  • Sante parole, un abbraccio metallico.

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  • Qualche giorno fa mio nipote mi ha chiesto di venire in macchina con me. Dovevo andare a comprare le sigarette, la solita merda che fumo da una trentina d’anni ormai, cazzo. Mi fai sentire la canzone dei lupi, zio (Full moon madness)?
    Certo, ascolta bene però. Se vuoi la canto anch’io, la impariamo insieme, ok? C’ho messo tutto il fomento che ti viene quando cerchi di trasmettere qualcosa che ti sta enormemente a cuore.
    Ho visto la luce nei suoi occhi, rideva e rideva con la convinzione di chi ha compreso a pieno ciò che le parole non possano esprimere.
    No, il metal non è morto ho pensato in quel momento.

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  • Mi rivolgo all’autore, credimi, mi stai sul cazzo col cuore… ho appena smesso di piangere dopo aver: appreso la notizia, visto cos’e’ successo al suo memoriale sabato, passato la domenica a pensarci, adesso leggo il tuo articolo e ricomincio..
    scherzi a parte, hai messo su carta tutto quello che si poteva provare, non avrei potuto scrivere di meglio nemmeno con tutta la vita davanti ad un foglio bianco

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