Avere vent’anni: CARPATHIAN FOREST – Black Shining Leather

I Carpathian Forest sono sempre stati un’entità a parte all’interno della scena black norvegese: sin dagli inizi, infatti, hanno portato avanti un percorso musicale personalissimo, mantenendo soprattutto all’inizio della loro carriera un’attitudine  piuttosto elitaria, fatta di pochi proclami e soprattutto pochissime interviste, quasi a mantenere una sorta di distacco dal resto della scena. Dopo un demo diventato ben presto di  culto e l’ottimo EP d’esordio Through Chasm, Caves & Titan Woods arrivò alle stampe questo Black Shining Leather sotto l’Avantgarde Records di Roberto Mammarella (uno che ci ha sempre visto lungo). Parliamo di un lavoro che, all’epoca in cui uscì, lasciò parecchio interdetti. Se infatti come base di partenza parliamo di un classico black norvegese feroce e nichilista, basta approcciarsi all’iniziale titletrack per rendersi conto che su questa struttura si inseriscono sia elementi derivanti da certo thrash ottantiano che, soprattutto, una vena punk che mai era stata così evidente in un lavoro proveniente dalla terra dei fiordi. Ascoltando attentamente il disco ci si accorge quasi subito di come questo rifletta le personalità disturbate dei due mastermind dell’epoca: quella ironica e dissacratoria di Roger “Nattefrost” Rasmussen e quella gelida e nichilista del misantropo Johnny “Nordavind” Krovel, che da lì a poco abbandonò la baracca.  

D’altronde basta dare un’occhiata ai crediti dei brani per rendersi conto di come i pezzi più diretti e punkeggianti come Pierced Genitalia o Sadomasokistik (già i titoli sono tutto un programma) siano composti da Nattefrost, mentre quelli più oscuri e atmosferici da Nordavind. Personalmente ho sempre preferito questi ultimi, e d’altronde risulta veramente difficile rimanere indifferenti al cupo incedere di Lunar Lights, alle atmosfere sognanti di The Northern Emisphere e soprattutto a quella che considero la miglior canzone mai composta dai Carpathian Forest: l’inno alla morte di Death Triumphant, con quelle tastiere inquietanti e lo scream di Nattefrost che sembra preannunciare l’armageddon da un momento all’altro. Da segnalare anche la personalissima rivisitazione di A Forest dei Cure, a confermare come la band di Stavanger viaggiasse parecchio fuori dagli schemi per quel periodo. Inoltre è da segnalare una produzione piuttosto pulita per gli standard norvegesi dell’epoca, sia per quel concerne il suono di basso, mai così nitido e in risalto, sia per la batteria, suonata da Lazare dei Solefald in veste di ospite speciale. Con i lavori successivi i Carpathian Forest accentueranno ancora maggiormente il lato più diretto e aggressivo del proprio sound a discapito della melodia, attestandosi comunque su livelli più che buoni, anche se probabilmente la magia dei primi demo e di questo esordio rimarrà solo un lontano ricordo. (Michele Romani)

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