FIRENZE ROCKS 2018 – Iron Maiden, Guns’n’Roses e zucchette riunite


(foto prese dalla pagina ufficiale dell’evento)

La decisione di partecipare a questo Firenze Rocks l’ho presa a novembre. Non sapevo cosa aspettarmi, non conoscevo la location né ero mai stato nel capoluogo toscano per un festival di questa portata. Non me ne fregava un emerito cazzo dei Foo Fighters e per cause di forza maggiore – a malincuore – ho dovuto rinunciare all’atto conclusivo domenicale. Sì, lo so, solo un ritardato poteva voltare le spalle a dei mostri sacri come Ozzy e Judas Priest. Ma si sa, la vita è fatta a scale: c’è chi sale, c’è chi scende e chi nel culo se lo prende; di conseguenza ho preferito vedere Guns’N’Roses (mia prima esperienza) e godermi i sempiterni Maiden. Dopo un quarto di secolo, speso in spostamenti e ardui pellegrinaggi a causa dei concerti, non ho ancora imparato una cosa: potrò andare a letto due o dieci ore prima della partenza, ma comunque non farà mai alcuna differenza perché l’eccitazione e l’adrenalina saranno talmente elevate da rendermi ogni volta incapace di chiudere occhio e riposare come Cristo comanda.

Sveglia impostata alle 04:15 di venerdì 15 giugno, treno alle 06:03 e prima disavventura già all’altezza di Brindisi (passaggio a livello guasto). Non male come inizio. E via così, con le bestemmie che spiccavano il volo già alle prime luci del mattino. Questa rogna, per fortuna, ci è costata appena una quarantina di minuti. Seccatura che comunque ha fatto perdere la prima coincidenza utile da Bologna per Firenze a me, alla mia ragazza e al resto della ciurma proveniente da Lecce. I collegamenti ferroviari attuali andrebbero rasi al suolo e probabilmente sarò l’unico a pensarla così. Anzi, ne sono convintissimo. Tralasciando qualche ulteriore (lieve) peripezia, arriviamo all’hotel a pomeriggio, ci rifocilliamo, ci sciacquiamo le palle e intorno alle 19:00 giungiamo all’arena del Visarno. Non mi dilungherò: Pink Slips, Volbeat, eccetera, per quanto mi riguarda, potevano pure farsi esplodere o essere malmenati appena messo piede in terra italiana. Specie i primi, visto questa simpaticissima moda dei nomi grossi di portarsi dietro gli eredi sottosviluppati, i figliastri e i surrogati di sperma concepiti in una notte di mezza estate su qualche tourbus fetido e dismesso. Nel caso specifico, gli imputati di turno corrispondevano ai nomi di Duff McKagan e di Grace “Grave” McKagan, figliuola del bassista di Seattle nonché singer di tali Pinko Slips Pallino che, giorni più tardi, ammetto di aver ascoltato su YouTube. In tutta sincerità ho sperato si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto costruito per gioco. Ma a quanto pare, Lady “Grave” (…) & compagnia esistono sul serio. Boh, a Duff e gentile rampolla suggerirei sommessamente di vagliare l’ipotesi del suicidio. 

Ecco, l’idea di gustarmi i BARONESS mi aveva invece stuzzicato non poco ma, un po’ per la fretta, un po’ per le miriadi di faccende da sbrigare, ho mandato a fare in culo pure loro. I GUNS’N’ROSES aprono le danze poco dopo le 20:00. Orario magari insolito, ma tutto sommato comprensibile vista la mole di materiale proposta dalla band di Los Angeles. C’è poco da dire sulla scaletta. Si parte con It’s So Easy, passando per la distruttiva Welcome to the Jungle e finendo con una versione ultra esagerata di Paradise City accompagnata, al termine, da una fitta esplosione di fuochi d’artificio. Il delirio è pressoché totale e abbraccia grandi e piccini che compongono il numerosissimo pubblico presente. Dunque, io non so che tipo di performance offrirono l’anno scorso a Imola, ma per quanto mi riguarda – dopo quello che ho riscontrato a Firenze – non mi pare che Slash e colleghi si divertano ancora tanto a calcare il medesimo palco. L’alchimia di 25-30 anni fa è soltanto uno sbiadito ricordo. Sull’esecuzione dei brani non credo ci sia qualcosa da rimproverare ai componenti, ma ho notato un atteggiamento quasi compassato. Un approccio sicuramente autoritario ma allo stesso tempo inorganico. Ho aspettato di tornare a casa per leggere altri pareri e, a parte l’immancabile, spropositata euforia di alcuni, mi sono imbattuto anche nell’altra faccia della medaglia. Slash fa il suo, ma sembra quasi malinconico e lo dice chi conosce perfettamente il suo stile e la sua condotta on the road. Ad avvalorare ulteriormente quest’opinione ho finanche ripreso (col mio maledettissimo smartphone) uno spezzone di Sweet Child o’ Mine che si è rivelato emblematico in seno all’umore generale palesato dalla band. È soprattutto in quella situazione che ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un chitarrista che a malapena aveva voglia di deliziarci con l’assolo di una delle song più generazionali e rinomate dell’intera carriera dei Guns. Capitolo Axl: ha la forma di un budino rigonfio, puzza di fogna e si muove come un Mario Adinolfi in preda ad una crisi epilettica.

Scherzi a parte, l’Umberto Tozzi di Lafayette alterna cose buone ad altre meno convincenti. Da più parti mi avevano anticipato l’attuale tendenza del frontman americano: “Mah, guarda… Rose canta come Cristo comanda solo se è in giornata. A volte canta bene e in altre un po’ meno“. A Firenze non è stato osceno, ma ha preso almeno un paio di stecche clamorose. Talmente clamorose che ad un certo punto mi son chiesto se davvero stesse stonando o se invece fossi io ad avere un improvviso problema all’udito. Niente, dopo più di 3 ore di concerto, articolato su cover, omaggi alla buonanima di Chris Cornell e assoli sfiancanti, la mia prima volta ad un’esibizione dei Guns m’ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Qualche luminare sicuramente dirà “Così impari a spendere 80 euro per vedere quei rottami“. Non posso dargli completamente torto, ma ovviamente non è credibile neppure chi ha stroncato in toto, e senza pietà, una delle rock’n’roll band più influenti di tutti i tempi. Amici belli, in questo mondo ci vuole un lieve equilibrio.

È sabato ed è il turno della metal band per eccellenza. Non so veramente da dove cazzo cominciare. Anzi, un momento. Voglio innanzitutto sottolineare una roba che ha del clamoroso: questo Firenze Rocks spacca. Non sono ubriaco. Lo so, sembrerà incredibile, ma le cose stanno più o meno così. Posto accogliente, collegamenti sensati, arena ampia e facilmente raggiungibile da ogni buco di culo del comune fiorentino, deflusso regolare e servizi igienici nel complesso accettabili. Sensatissima, inoltre, l’idea di munire l’arena di nebulizzatori d’acqua (faceva molto caldo). Non sembrava di essere in Italia, ma se si eccettuano i prezzi improponibili di bevande e cibo, nonché l’immane troiata di obbligare la gente ad utilizzare i token, la verità è quella di cui sopra. Probabilmente sto ancora sognando. Torniamo agli artisti. Anche in questa circostanza, inutile negarlo, ho augurato mali atroci a JONATHAN DAVIS e agli altri stronzi che han suonato prima di lui. Lasciamo l’hotel e giungiamo nuovamente all’Ippodromo mentre si stava appunto esibendo quel diseredato di Davis. L’utilità di chiamare quest’uomo resta a tutt’oggi un mistero e il disinteresse (pressoché totale) dei presenti è lì a testimoniarlo. È il turno di uno dei gruppi della mia vita, ossia gli HELLOWEEN. Per l’occasione, un mesetto prima, ho deciso di vendere i biglietti del posto unico optando per l’infamante pit. Ci ho riflettuto oltremodo negli ultimi 60 giorni, ma queste sono azioni che solo un fan sfegatato degli Iron Maiden potrà capire. Superfluo aggiungere che ne è valsa la pena. Voglio dire, c’erano pure gli Helloween eh. Mica una cover band dei Bang Tango.

Sentir suonare le zucche tedesche mi ha fatto toccare vette di esaltazione mistica. Era la prima volta che mi gustavo un loro live e sono tornato bambino. Kai Hansen è Gesù Cristo e lo porterò sempre nel cuore, Andi Deris è un grande e vabbeh, su Kiske cosa volete che vi dica? Sapete già. Le danze si aprono con Halloween e già con questo brano si riesce a tastare l’enormità dei tedeschi. Eagle Fy Free è orgasmo puro, non da meno Power, ma ovviamente è con l’ultima canzone che io e gli altri fratelli del metallo abbiamo visto la Madonna: sì, mi riferisco all’immortale, apocalittica e gloriosa I Want Out. Quello tra Weikath & co. è affiatamento vero. Non c’è trucco e non c’è inganno, non c’è recita né finzione. O almeno, questo è ciò che trapela dalla pedana (il dietro le quinte non mi interessa minimamente e dovrebbe essere così per chiunque). Insomma, altro che Guns. Qui i nostri paladini teutonici si divertono eccome. Unico appunto? Basso e soprattutto batteria tendevano a coprire eccessivamente le chitarre. Peccato, ma tutto sommato queste sono puttanate di cui davvero non fregava un cazzo a nessuno. E poi vorrei ben vedere dopo l’invasione finale di palloni giganti decorati con l’effigie della zucca. Trovata che manda letteralmente in visibilio l’intera platea. Andiamo ad Amburgo Beppe!

Se la memoria non m’inganna sono all’incirca le 21:00 e l’atmosfera è frizzante, l’ambiente è in fermento e c’è la netta sensazione che qualcosa di esplosivo stia per accadere. Ragion per cui io e la mia temeraria compagna ci spingiamo un po’ più avanti. Lo facciamo con modestia e garbo, specie perché siamo consapevoli del terremoto di magnitudo 10 della Scala Richter che di lì a poco si sarebbe consumato. L’attesa viaggia sulle note dell’immancabile Doctor Doctor degli UFO, le luci si abbassano e come per magia riecheggia minaccioso il vocione di Winston Churchill. Il Legacy of the Beast World Tour irrompe di prepotenza anche in Italia spazzando via i presenti sulle note di Aces High. Non si capisce niente. Giovani, vecchi, paraplegici, donne e bambini sono letteralmente in trance. Qualcuno rischia la vita, altri imprecano giulivamente. È un susseguirsi di sensazioni difficilmente catalogabili e il merito va dato naturalmente ai Maiden. Ascoltare il trittico iniziale Aces HighWhere Eagles Dare2 Minutes to Midnight è stato come farsi travolgere da uno tsunami di proporzioni astronomiche. Ogni pezzo meriterebbe di essere descritto nei minimi dettagli. Che dire di Flight of Icarus? Esiste qualcosa di più monumentale, esaltante e potente di un Bruce Dickinson che a 60 anni suonati impugna tutto gasato il suo bel lanciafiamme?

La setlist è grandiosa e mai come questa volta il missaggio dei suoni è stato perfetto, preciso e curato nei minimi dettagli. Anzi, era proprio impressionante. Il merito è anche dei 6 inglesi e di un sodalizio inattaccabile che da decenni riesci ad appurare guardandoli semplicemente negli occhi. Altro che quello fra Trump e Kim Jong. Dickinson è un leader, Adrian Smith un menestrello della sei corde, Gers il solito giullare di corte e Murray il ritratto del buonumore e dell’allegrezza tipici di un campeggio di scout affetti da ebetismo dilagante. A proposito di Dickinson: mi preme aggiungere un dettaglio tutt’altro che irrilevante. La sua ugola è tornata ad essere viva e meno sofferente. Questa è una notizia che ha strabiliato tutti, specie perché le scorie del cancro alla lingua erano purtroppo tangibili nell’ultimo tour di supporto a The Book of Souls. La sua voce faceva una fatica immane sulle note alte e io l’ho constatato di persona proprio a Roma nell’estate del 2016. Disgrazia che comunque, a distanza di due anni, pare essere quasi completamente svanita. Pazzesco. La serata scorre velocemente e nessuno riesce a stare fermo. Facile tessere le lodi per quanto riguarda i cavagli di battaglia, ma i pezzi che più di tutti mi hanno fatto volare sono stati The Clansman (durante l’intro arpeggiata ammetto di essermi commosso) e soprattutto Sign of the Cross. La versione dal vivo di quest’ultima penso sarebbe riuscita a far resuscitare persino Umberto Eco in persona. Il concerto si chiude con la leggendaria Run to the Hills su cui è inutile spendere ulteriori parole. Firenze si è rivelata la Culla del Rinascimento metallico.

Cos’altro posso aggiungere? Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare. Quello che ho appena descritto ero il mio decimo gettone ad un concerto degli Iron Maiden. Sono passati tanti anni, ma i britannici pare non abbiano alcuna intenzione di invecchiare. Sia lodato Steve Harris (a proposito di prole: esimio Boss, grazie. Almeno tu, stavolta, non ci hai ammorbato i coglioni portandoti appresso Lauren e i The Raven Age). Concludo con una constatazione che non ammette repliche. Ciò che accomuna tutti fans della Vergine di Ferro è il sorriso. E questo l’ho verificato già ai tempi di Blaze. Un fan degli Iron sorride prima, durante e soprattutto dopo un loro live. Vedi una luce nei loro occhi difficilmente riscontrabile nelle pupille di chi ha assistito ad una qualsiasi altra esibizione di un qualsiasi altro complesso. Per questo non si può che essere grati a una delle ultime, grandi metal band del pianeta. Chi non avrà – almeno per una volta in vita sua – l’opportunità di assistere all’inarrivabile spettacolo che regalano questi 6 gentiluomini, capaci di suonare e divertirsi come se avessero ancora 25 anni, non saprà mai cosa cazzo si è perso. Chi non ama gli Iron Maiden ha torto.

10 commenti

  • “A Firenze non è stato osceno, ma ha preso almeno un paio di stecche clamorose”. Cavoli in 3 ore di concerto davvero una pecca imperdonabile!

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  • Non sono stato al Firenze Rock, ma ho visto entrambe le band in Belgio al Graspop.
    Guns and Roses mediocri: concerto troppo lungo, un’ora abbonandate di lenti e assoli a cazzo in mezzo che hanno completamente spezzato il ritmo, tutti scazzatissimi (Slash soprattutto) e Axel ha preso tante ma tante stecche e sulle parti più alte era a tratti imbarazzante. Si vede che è una reunion basata solo ed esclusivamente sul cash.
    Iron Maiden tantissima roba, scaletta paura e Bruce in formissima. Li ho visti dieci volte e li rivredei altre dieci

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  • Approvo la riflessione sull’inutilità di tutto il resto. I Grassi e Rosa furono il mio ingresso 25 anni fa, ora non mi interessano più. I Maiden, letteralmente, mi stracciano i marroni da dopo Fear of the dark. Ne deriva che per questa scaletta avrei pagato il doppio, ma per altri tour… manco morto. Omaggiare però la loro classe infinita è necessario.

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  • Cazzo si che hai fatto bene a prendere i biglietti del pit per i Maiden. Io ero nel pratone proletario e sono arrivato alle transenne del pit. Concerto visto dai maxischermi, che proprio maxi non erano. Il palco era un miraggio in lontananza. Son del parere che andare a questi mega eventi per stare a cento/duecento metri dal palco sia un pò come timbrare il cartellino per poter dire “c’ero anche io”. A parte questo dettaglio non da poco i Maiden sono stati devastanti e Dickinson andrebbe studiato in laboratorio dopo la prestazione che ha fatto.

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  • Visto Sabato e Domenica.
    1)ci vogliono un kiske(mio grande ammore) e un deris per fare un dickinson
    2)la sciarpetta blu di smith mi ha riportato a seventh son
    3)non si possono mettere i judas alle 4 di domenica,soprattutto prima di tizi coi cappellini da baseball al contrario .
    4)Ozzy più sgaio che all’ arena di vr. Le parrucchiere fanno bene.
    5)Zakk e l’assolo alla fine di war pigs giu’ dal palco .Penotti(pelle d’oca).

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  • ma smettere di mandare quindicenni ai concerti per non fare report che farebbero arrossire un bambino delle elementari, no?

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