Avere vent’anni: aprile 1998

CANDLEMASS – Dactylis Glomerata

Edoardo Giardina: Considerare Dactylis glomerata un album dei Candlemass è quantomeno improprio. Inizialmente Edling lo doveva pubblicare con gli Abstrakt Algebra, progetto creato dopo il temporaneo scioglimento del suo gruppo principale. Solo che la Music for Nations gli disse che glielo produceva solo in caso ci avesse messo su il nome Candlemass. Pure i Cynic, ci hanno messo un po’ di più, ma alla fine l’hanno capito che se sul disco c’era scritto Portal o Æon Spoke vendevano di meno. E a me Dactylis glomerata piace pure tanto, ad essere sincero, nonostante quel teschio ripreso da Epicus Doomicus Metallicus sia proprio una bastardata fuorviante. Sì, perché tutto sommato questo è l’album in cui Leif Edling ritrova l’ispirazione (anche se con uno stile molto più stoner che doom), la quale già da almeno due-tre album risentiva di qualche acciacco (perché Tales of Creation è uno dei migliori, ma fondamentalmente ripropone pezzi scritti da anni). Io mi spingerei addirittura oltre: Dactylis glomerata è l’ultimo album dove il bassista svedese è veramente tanto ispirato perché, personalmente, né il successivo ritorno di Marcolin alla voce né gli ultimi Psalms for the Dead e Death Thy Lover mi hanno mai entusiasmato.

CONVERGE – When Forever Comes Crashing

Enrico: Facendo un passo indietro e analizzando la discografia dei Converge nel suo complesso, il vero problema di When Forever Comes Crashing è essere il predecessore di uno degli album più importanti degli anni 2000. Sì, c’è anche una produzione non all’altezza degli standard della band di Salem (questione risolta qualche anno dopo grazie all’opera di remaster di Kurt Ballou) e la sofisticata complessità di alcuni passaggi per certi versi ne attenua l’impatto, ma è il lungo cono d’ombra di Jane Doe ad aver ingiustamente relegato questo disco in una posizione di subalternità rispetto ai lavori successivi di Bannon & Co. Jane Doe, come tutte le pietre miliari, ha scavato un solco tra un prima e un dopo, e When Forever Comes Crashing è finito inevitabilmente sacrificato nel prima. Peccato, perché la versione ripulita e ristrutturata del 2005 non ha molto da invidiare a You Fail Me o No Heroes. È forse l’album più metal dei Converge, 40 minuti violenti e sofferti, undici tracce che meriterebbero ben altra considerazione e invece non vengono nemmeno più suonate dal vivo. L’amaro destino della compagna di banco carina e simpatica quando arriva in classe la stangona turbofregna.

GATES OF ISHTAR – At Dusk and Forever

Ciccio Russo: I Gates of Ishtar sono uno dei gruppi che sarebbero dovuti apparire in quello speciale sul death metal svedese sfigato d’antan che poi, per defezioni dell’ultim’ora, non si fece. Tre dischi in tre anni, poi il repentino scioglimento. Avendo colpevolmente lisciato sia l’esordio A Bloodred Path (’96) che il successivo The Dawn of Flames (’97), l’ultima chance per rendere giustizia al trio di Lulea è questo At Dusk and Forever (lo so, uscì a febbraio, è che stavamo pensando di fare un recuperone dedicato solo a loro ma anche tale nobile proposito non è andato in porto), che è grossomodo ai livelli degli altri due; quindi un gioiellino. Death melodico di scuola Goteborg, dritto al punto, giocato su tempi mediamente lenti e senza velleità sperimentali. Non erano dei geni ma, se amate il genere, l’opener Wounds sarà già sufficiente a dipingere un sorriso ebete sulla vostra facciaccia. Metal Archives li dà per riformati nel 2015 ma non mi risulta abbiano combinato qualcosa, manco dal vivo.

DARK FUNERAL – Vobiscum Satanas

Marco Belardi: I Dark Funeral sono una delle cose più inconsistenti e meno longeve che abbia conosciuto in vita mia. Il primo aggettivo, perché nonostante una innegabile pesantezza di fondo mi sono sempre apparsi incapaci di trasmettere tutto quello che il genere di appartenenza permetteva – in questo caso in Svezia – di rispondere al filone norvegese a mezzo di band come Dawn, Setherial, Naglfar, Marduk, Lord Belial e chi più ne ha più ne metta. Inclusi band – non ideologicamente – di confine come i Dissection e certe cose minori, ma che comunque mi colpirono profondamente, come i Craft o gli Embraced di Within.

Fra le tante ho sempre sospettato che i Dark Funeral avrebbero fatto il botto in negativo, perché dopo un debut bellissimo come The Secrets Of The Black Arts il passo successivo fu quello di liquefare la line-up, e tornare alla ribalta con un’attitudine da veterani pronti ad autoproclamarsi come la next big thing fra i coerenti, e non fra i vampireschi inglesi-e-non, ma comunque con un piglio, un modo di porsi semplicemente del cazzo. Per questo, ho tirato in ballo la loro scarsa longevità. In ogni modo Vobiscum SatanasDiabolus Interium erano due album in qualche modo godibili e ascoltabili, nonché ricchi di perle come Ravenna Strigoi MortiiEnriched By Evil o la An Apprentice Of Satan unico dell’EP con la più bella copertina di sempre, Teach Children To Worship Satan. Un all-in sulla violenza e sulla velocità che nonostante i cambi di tempo presenti nel disco, mi stancava comunque più di un Panzer Division Marduk o di altri album ritenibili piatti, omogenei, monolitici, ma in ogni modo infinitamente migliori di questo. Buon disco black metal, ma la magia – per i Dark Funeral – era già terminata in partenza.

MASSIVE ATTACK – Mezzanine

Stefano Greco: Per quelli della mia età Mezzanine è l’equivalente di The Dark Side Of The Moon per le persone degli anni ’70; è un album che hanno in casa quasi tutti, da quelli con una collezione che non supera i trenta pezzi alle tipe con i dischi dei Take That per finire ai truzzi con la discografia completa di Vasco Rossi. Il motivo principale è il singolo Teardrop che anche grazie a un videoclip bellissimo (quello col bambino che cantava nel ventre materno) divenne un successo enorme anche al di fuori di quelli che seguivano l’elettronica. Ma in realtà è tutto l’album ad essere spettacolare e nonostante rappresenti lo zenit commerciale del trip-hop conserva ancora ancora l’aura sinistra che caratterizzava gran parte di un genere che di dischi fichi in quel periodo ne ha tirati fuori parecchi.

A CANOROUS QUINTET – The Only Pure Hate

Ciccio Russo: Nell’abortito speciale sul death metal svedese sfigato ma fico dovevano figurare pure gli A Canorous Quintet (all’inizio si chiamavano A Canorous Quartet ma poi presero un altro chitarrista: storia vera), che di album ne fecero solo due ma in compenso si sono riformati sul serio e hanno inciso pure un live tre mesi fa. Gli A Canorous Quintet interpretano però il genere in maniera opposta rispetto ai Gates of Ishtar. Scrivono brani molto più articolati, tecnici e, nei frangenti veloci, violenti. Qua le velleità sperimentali ci sono eccome (per citare altre band connazionali e coeve che pure dovevano finire nello speciale di cui sopra, sono del partito dei Miscreant e degli Hypocrite – chi se li ricorda?). Così come ci sono, seppure molto sullo sfondo, richiami al techno-death americano, e stacchi acustici che cercano di essere qualcosa di più che interludi. Riascoltati oggi, conservano il loro fascino ma alla lunga suonano un po’ dispersivi. Poi è chiaro che il gruppo medio svedese dell’epoca, che aveva l’unica colpa di essere contemporaneo a Whoracle e The Mind’s I, se uscisse oggi con un The Only Pure Hate, sbancherebbe le playlist di parecchia gente.

Con i Gates of Ishtar è però condivisa la provenienza da una località periferica, con la differenza che Lulea è una cittadina di medie dimensioni mentre la loro Kungsangen è un paesino del cazzo di manco ottomila abitanti. Forse furono questi i motivi per i quali questi gruppi furono sfigati: non venendo da una grande città, non potevano contare sui vari stakanovisti alla Rogga Johansson che non rifiutavano una proposta a nessuno, qualora servisse un membro nuovo per tenere in piedi la baracca.

OLD MAN’S CHILD – Ill-Natured Spiritual Invasion

Piero Tola: Un grandissimo sbadiglio, nonostante la prestazione di Gene Hoglan dietro le pelli, il quale probabilmente sarà andato in studio, avrà dettato i tempi da bravo orologio atomico, si sarà fatto offire un babà dal tizio dei Dimmu Borgir e se ne sarà andato a casa a mangiare un calzone farcito di prosciutto, mozzarella di bufala e ‘nduja per rinforzare lo stomaco, per citare il neosindaco del web YouTubo Anche Io. Abbastanza inutile, come del resto tutta la discografia degli Old Man’s Child.

INCANTATION – Diabolical Conquest

Marco BelardiL’importanza di Diabolical Conquest, proprio come nel caso di Gallery Of Suicide, sarà quella di fungere da album ponte fra due fasi significative della carriera delle rispettive band. Ma con risultati migliori. In sostanza, il disco che gli Incantation realizzarono nel 1998 rappresenta l’immediato dopo-Pillard, ossia la necessità di salvarsi in calcio d’angolo dopo i primi due meravigliosi parti discografici, e l’altrettanto valido EP che li seguì – quest’ultimo, la loro pubblicazione che preferisco in assoluto. Un anno dopo, McEntee si ritrovò a cantare senza la maturità accumulata ai tempi odierni né – probabilmente – la consapevolezza di poterlo fare abilmente. Tantoché nel breve volgere di un album sarebbe stato reclutato Mike Saez, una sorta di clone di Ross Dolan che parteciperà ad alcune fra le meno celebrate composizioni della band del Pennsylvania. Diciamocelo, il periodo che iniziò con Infernal Storm e terminò con Primordial Domination non fu dei più rosei per gli Incantation, e sebbene le pubblicazioni si susseguissero con regolare cadenza, la pausa che ha preceduto l’ottimo Vanquish In Vengeance è servita a ritrovare brillantezza, ispirazione e nuovi elementi da aggiungere ad un sound che al tempo di Diabolical Conquest era già rodato. Ed in seguito divenne – per qualche anno – addirittura stantio.

Diabolical Conquest ha la spinta di una opener dalla personalità fortissima, rallentamenti ispirati ma mai dominanti come in futuro, ed un sound semplificato all’osso a partire dalla sezione ritmica, a cui Dave Culross proverà due anni dopo a cambiare inutilmente i connotati. Gli Incantation andavano bene così, ma non potevano farlo a lungo dopo che la ricetta di Onward To Golgotha era stata elaborata entro i limiti del possibile, estraendone ogni risorsa. Un buon disco, con un discreto tiro e numerosi cambi di tempo, ma che come il successivo Infernal Storm si rivelerà un po’ schiavo della sua prima e inarrivabile canzone (in quel caso la stupenda Anoint The Chosen che, nel rallentare, finiva davvero dalle parti dei Morbid Angel).

DESECRATION – Murder In Mind

Ciccio Russo: Ci sono – o ci sono stati – quasi venti gruppi che si chiamano Desecration, tra i quali due italiani. Questi qua sono quelli più conosciuti e meritevoli. Quelli gallesi, insomma, venticinque anni e otto full dedicati al death metal più marcio, ignorante e splatter (la copertina originale con la tizia nuda morta in mezzo alle foglie non la abbiamo trovata in una risoluzione decente; manco quella censurata in realtà). Murder In Mind è il secondo e non è esattamente da consegnare alla storia. C’è qualche buon momento quando pestano ma nei mid-tempo abbuffano decisamente la uallera. Però, per qualche motivo, mi sono sempre stati simpatici. Faranno di meglio in seguito. Magari, se non li avete – come probabile – mai sentiti, recuperate, che so, Process of Decay.

BLIND GUARDIAN – Nightfall In Middle-Earth

Charles: Esco dal torpore recensistico solo perché in questa tornata di Avere vent’anni ho letto cose che voi umani… Su alcune ci passo anche su, ma leggere pareri in merito a questo disco che non vadano esclusivamente dall’elogiativo al celebrativo non è concepibile. Mi dispiace ma avete torto a proposito di Nightfall… e se anche volessi dimostrarvi il contrario non saprei proprio da dove cominciare. Spiegare i colori a un cieco sarebbe più semplice.

QUEENS OF THE STONE AGE // BEAVER – The split cd

Stefano Greco: The Split cd è il perfetto esempio della pura bellezza di quanto veniva pubblicato dalla Man’s Ruin tra il 96 e il 99: EP brevi ma intensissimi con un’aura da bassa fedeltà e un rinnovato culto dell’oggetto fisico (da pura bava alla bocca quei 10 pollici colorati impacchettati nelle grafiche incredibili di Frank Kozik). In questa uscita i quindici minuti a disposizione vengono equamente divisi fra delle future superstar ed un tuttora misconosciuto gruppo olandese. I primi due brani anticipano di pochissimo il clamoroso primo album dei Queens Of The Stone Age, qui ancora nel pieno della loro fase underground. In The Bronze il sound di chitarra di Homme è nel suo momento di perfezione assoluta, mentre il secondo brano è uno strumentale dissonante, intitolato con una coltissima citazione starwarsiana. Da pippa a due mani. Nel proseguo dell’EP troviamo invece i favolosi Beaver, autentico tuffo al cuore per tutti gli amanti dello stonerone di una volta. Anche qui due brani in bilico tra esotismo (Morocco) e quel senso di stordimento che era l’essenza stessa di tutto il filone. Vi prego, per una volta lasciatemi fare il vecchio brontolone: di roba così non la fanno più.

 

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