JUDAS PRIEST – Firepower

Piero Tola: Alcuni pensano sia il nuovo Painkiller, e allora ve lo dico subito: frenate gli entusiasmi. Il disco è bello, potente, e soprattutto ha molto da dire, se paragonato a quanto venuto dopo quell’album. Ecco, sicuramente non è sullo stesso gradino di Painkiller (parliamoci chiaro, solo Killing Machine, Stained Class, British Steel e altri tre o quattro ben noti lo sono) ma altrettanto sicuramente è il migliore DA Painkiller. È chiaro che qualche caduta ci sia, come ad esempio nel pre-ritornello di Evil Never Dies, che sminuisce leggermente la cattiveria generale del pezzo, un mid-tempo minaccioso e ultra-heavy, e in qualche altro pezzo meno efficace qua e là. D’altronde è un disco di quasi un’ora, pregno di heavy metal, quello vero, e contenente ben quattordici pezzi quattordici, che hanno il pregio di volare, grazie ai riff convincenti, ai suoni massicci ma non posticci, ai begli assoli e ad armonizzazioni che quasi fanno sembrare che affianco al buon Glenn ci sia ancora KK, tale è a tratti l’affiatamento.

Molto ma molto meglio dello spentissimo Redeemer of Souls, prima prova di Richie Faulkner. E non vado manco a rivangare Nostradamus perché sarebbe impietoso. Un disco che si fa ascoltare e riascoltare con piacere, un po’ come Dystopia, che pensavo si raffreddasse, ripreso dopo un anno dall’uscita. Invece no. Mi aspetto lo stesso da Firepower, con la sua copertina in tipico stile Priest di inizio anni ottanta e quel tiro peculiare delle cose migliori dell’era Scott Travis. Per intenderci, quel tappeto ritmico solidissimo e potentissimo che davvero fece la differenza e portò ad una vera e propria rinascita dei Priest all’approssimarsi degli anni novanta.

Pregevolissimo e degno della playlist del 2018, almeno per ora. Nel 2017 ci sarebbe entrato di sicuro.

Ciccio Russo: Firepower è il miglior disco dei Judas Priest dai tempi di Jugulator. Lo so, scrissi lo stesso a proposito del tedioso Redeemer of Souls (potete quindi immaginare quale considerazione abbia dei primi due lavori sortiti dalla reunion con Halford) ma qua stiamo parlando di un altro campionato. Redeemer aveva sì e no tre o quattro tracce passabili alle quali mi ero aggrappato per digerire la delusione; su Firepower non c’è nemmeno un pezzo che non mi piaccia almeno un po’. Faulkner sembra essersi finalmente integrato nel gruppo e il risultato è un album aggressivo, fresco, tirato, essenziale, senza più le lungaggini inutili e i giri a vuoto che, nei tre full precedenti, avevano tentato di mascherare la stanchezza e la carenza di idee. Si potrebbe addirittura supporre che siano stati l’addio di KK Downing e il ridimensionamento del ruolo di Glenn Tipton (condannato al ritiro da un incipiente morbo di Parkinson) a consentire ai Priest di pubblicare finalmente, dopo vent’anni, un disco che non sfiguri troppo accanto ai vecchi classici, ai quali Firepower guarda in maniera forse più diretta dei suoi immediati predecessori. Si ritorna a una forma canzone basilare, incentrata su riff e ritornelli, senza però far finta che nel frattempo non sia successo niente. Anzi, se è vero – come sostiene Roberto – che i Priest fino a Jugulator sono stati una band che si è sempre reinventata senza mai tradire il passato, si può dire che con Firepower i Judas Priest abbiano ricominciato a fare i Judas Priest.

Non c’è rassegnata nostalgia, non c’è l’aria di luttuosa smobilitazione che aveva pesato sul pur buono 13 dei Black Sabbath, anzi, è la prima volta che Jugulator non viene rinnegato del tutto (non ditemi che la sinistra vena thrash di una Necromancer non viene da lì). Un po’ un paradosso, dato che i più attivi in cabina di regia sembrano essere stati i due membri che su Jugulator non c’erano: Richie Faulkner, che ha riportato la band nel terzo millennio, e Rob Halford. Già, perché non sono solo le analogie con i suoi lavori solisti a farmi ritenere che il suo apporto compositivo sia stato superiore al solito. Firepower è molto più costruito sulle linee vocali di un Angel of Retribution, dove queste ultime sembravano essere state buttate giù a brani già chiusi e arrangiati. Sono le linee vocali, insieme a una sezione ritmica tonante e incisiva, a reggere gli episodi più riusciti, come Lightning Strike o la vagamente acceptiana Never the Heroes. E c’è di più: con Firepower i Judas Priest sono tornati ad assolvere un compito tradizionale dei mostri sacri che, per gente come Iron Maiden e Metallica, non è più alla portata dal secolo scorso. Ovvero, pubblicare un disco “commerciale” e non troppo passatista che possa piacere anche al ragazzino attirato dal grande nome. Che ne so, magari, se avessi 13 anni, oggi Firepower potrebbe cambiarmi la vita come fece Fear of the Dark con molti della mia generazione. Ok, Evil Never Dies non sarà Rapid Fire ma manco Be Quick or Be Dead era Hallowed Be Thy Name, se vogliamo essere pignoli.

Cristian Cinabro: Se qualche disgraziato mi avesse detto che nel 2018 Firepower sarebbe suonato fresco, elettrizzante, e che mi avrebbe fatto toccare discrete vette di euforia, gli avrei dato una craniata sul setto nasale per poi ridere satanicamente. Le recenti opere partorite dai Judas Priest mi avevano a dir poco trucidato la sacca scrotale. E mi sto contenendo. Gli ultimi due dischi, ovvero Reedemer of Souls e soprattutto Nostradamus (103 minuti di tortura medievale che manco ai tempi dell’Inquisizione spagnola), erano dei polpettoni indigeribili. Roba che non sarebbe stata in grado di ingurgitare neppure una iena ridens a digiuno forzato da 30 giorni.

Firepower, per quanto mi riguarda, era il lavoro più atteso dell’anno. Francamente non mi aspettavo nulla di positivo. Che dire? Felice di essere stato smentito. I 14 pezzi che compongono l’album centrano in pieno il bersaglio riuscendo nell’impresa di non stancare praticamente mai e, se si eccettuano una manciata di episodi sottotono, questo diciottesimo platter targato Rob Halford & co. scorre che è un piacere. E dirò di più: persino quel paio di canzoni meno ispirate non ti fanno venir voglia di skipparle. Sarà perché sono tremendamente sentimentale e nostalgico, sarà per il sapore ottantiano che trasuda, ma una traccia abbastanza lineare come Never the Heroes, giusto per fare un esempio a cazzo, vale da sola l’acquisto di questo disco. Cioè, non so se mi spiego. Non sorridevo così tanto grazie ad un full length da circa 20 anni (l’ultima volta mi capitò con Brave New World degli Iron Maiden). Chiaramente Firepower non è un capolavoro, magari sarà pacchiano, non aggiunge assolutamente nulla di nuovo al genere, ma ciò che davvero colpisce è che non annoia. E, di questi tempi, un simile verdetto è un evento celestiale che manderebbe in estasi finanche Paolo Brosio.

Ciascun membro della band fa il suo dovere. Il Metal God, per ovvie ragioni anagrafiche, di sicuro non ha più l’elasticità e determinazione vocale di un tempo, ma su questo disco la sua ugola è comunque radiosa. Il leggendario rocker, pur agendo (a tratti) da mestierante, se la cava dignitosamente. Cosa che purtroppo non avvenne sul precedente Reedemer of Souls, dove il frontman britannico sembrava recitare il ruolo in modo asettico, frigido e senza il benché minimo mordente. Poi non lo so, mettendoci la recente (brutta) notizia riguardante il Parkinson che ha colpito Glenn Tipton, le interviste dello stesso Halford, la copertina grandiosa, etc., forse la visione d’insieme sui pregi di Firepower assume proporzioni ancora più vaste. Credo sia inutile sprecare ulteriori parole andando a sezionare ogni canzone, questo perché siamo su livelli buoni sotto tutti i punti di vista o quasi. Concludo dicendo che Richie Faulkner, pur non essendo K.K. Downing, è finalmente a suo agio con la sua 6 corde. Un’ultima cosa: è innegabile che una buona fetta di merito, in seno alla riuscita di quest’album, vada riconosciuta pure al produttore di vecchia data Tom Allom. L’eccellente produzione, l’equilibratura dei suoni, e via dicendo servono a ribadire un concetto che a molti musicisti rincoglioniti continua a sfuggire da eoni: scoprirsi tecnici del suono, andare ad insozzare col proprio culo flaccido un cazzo di mixer è, nel 99% dei casi, un suicidio annunciato. Questo valeva/vale per K.K. Downing, Glenn Tipton e tutti i Steve “pinco pallino” Harris che d’improvviso si scoprono luminari dall’orecchio fine. Con Firepower i Judas Priest hanno deciso, per 58 minuti, di suonare (dopo un decennio) come se dovessero morire domani. Loro però vivranno per sempre senza avere il benché minimo bisogno di imparare niente. In saecula saeculorum.

Trainspotting: Oh Robè, scrivila pure tu una recensione di Firepower, pure se non ti è piaciuto, anzi è meglio se è discordante dalle altre, no? E va bene, scriviamo la recensione di Firepower, e cominciamo con il concetto che ho espresso agli altri tizi di Metal Skunk: a me sembra un brutto disco dei Primal Fear, però suonato e cantato peggio. E inoltre: mi sembra l’equivalente priestiano di uno degli ultimi fenomenali dischi degli Iron Maiden (però suonato e cantato peggio). Non è che sia davvero brutto, in realtà: semplicemente lo trovo superfluo e composto con la mano sinistra mentre con la destra erano impegnati a giocare a morra cinese con Andy Sneap; che, dal suo canto, produceva con la mano sinistra mentre con la destra eccetera.

Non ci trovo nulla in Firepower, non mi smuove, non mi esalta, non mi diverte, non mi coinvolge, niente. Lo trovo moscio e accademico, esattamente come potrebbe essere un disco moscio e accademico di un gruppo partito come cover band dei Primal Fear. Le chitarrine suonano educate, la batteria tiene il tempo con sufficienza, la produzione è moscissima, Halford boh, suppongo faccia quello che deve fare. Non mi rimane in testa niente, manco un riff, un ritornello, un qualsiasi momento particolare: l’unica cosa che mi è rimasta è che c’è un pezzo che inizia arpeggiato identico a Battle Hymn, che dev’essere lo stesso scherzetto che fecero a loro i Maiden con The Wicker Man che iniziava uguale a Running Wild.

L’aspetto più sconvolgente è che sono noiosi anche gli assoli. Halford da solista ha scritto dei dischi molto simili, in quanto più quadrati e stilisticamente piatti rispetto ai Judas Priest, ma non c’è proprio paragone tra Resurrection e sta roba qua. E non dite che eh ma i tre dischi prima erano brutti invece questo no, perché io i tre dischi prima me li sono dimenticati un attimo dopo aver premuto il tastino stop – e questo farà la stessa identica fine. Il giorno dell’uscita dell’album ho letto un tizio dire che questo è il miglior disco dei Priest dall’epoca di Painkiller, ma volevo specificare che non solo Jugulator gli fa le scarpe, ma che anche Demolition era tutt’altra cosa rispetto a questo brodino vegetale scipito riscaldato con il formaggino. Ecco: Firepower è un disco-formaggino. Questa immagine, che d’ora in poi userò per tutta la vita, rappresenta perfettamente l’aggressività, il fomento, la pompa che esce fuori da questo disco: un formaggino. Cheesepower.

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