The Final Command: anche gli SLAYER ci dicono addio

Ho comprato Reign In Blood perché secondo un amico era il prossimo passo da fare dopo essermi avvicinato al thrash metal. Gli avevo detto che li conoscevo già, gli Slayer, ma in realtà avevo soltanto visto in tv il videoclip di I Hate You – quindi non un inedito – e il finale di quello di Dittohead: non sapevo un cazzo di loro, e così decisi di dargli retta. Poiché non ero in possesso di un lettore portatile, quel giorno mi ritrovai con quella custodia costantemente in mano, come una bambina posseduta dei film che gira per casa trascinando per terra la bambola, e con il vuoto siderale inciso nella faccia. Finii pure a cena dai parenti, e il mio pensiero non era chi mi avrebbe passato il sale, ma se quell’album avrebbe in qualche maniera suonato simile ai Metallica (fortunatamente, no). Subito dopo aver mangiato decisi di scendere in auto anche se era pieno inverno, volevo solo sentire cosa ci fosse dietro a quella copertina così folle, perché non ne potevo più di guardare quelle quattro facce sul retro che si contendevano delle lattine di birra, di cui i due a sinistra erano veramente inquietanti e il terzo, Tom Araya, sembrava lo stesse segretamente strofinando addosso all’ultimo a destra, che si limitava a sorridere.

I pochi secondi di silenzio prima che il lettore individuasse l’inizio della prima traccia furono interminabili, e Angel Of Death mi cambiò per sempre la vita. Se avete una ragazza, vi avrà almeno una volta piazzato in tv uno di quei luridi programmi in cui c’è un atelier, e la futura sposa spacca il cazzo per tutta la durata della trasmissione perché non trova l’abito giusto. Poi, verso la fine lo indossa e capisce all’ istante che è quello che fa per lei, suscitando l’isteria collettiva delle damigelle e la morte cerebrale della madre la quale – ovviamente – ha notato che le scopre eccessivamente le voluttuose zinne. Angel Of Death, e tutto ciò che la seguiva, era esattamente come volevo suonasse il metal e non userò alcun aggettivo perché sapete esattamente di cosa sto parlando. Il più memorabile dei dopo cena nonostante il rischio di congestione; l’album giusto, nonché quello che mi sarei riascoltato per un numero non quantificabile di volte.

E così arriva un momento in cui, circa ventidue anni dopo, hai assistito all’ uscita dei primi album degli Slayer non all’ altezza dei precedenti e nel 2015 ne hai ascoltato addirittura uno che non ti piace, e che sembra pure una di quelle commedie italiane che usano un titolo sgrammaticato per contestualizzarsi in una precisa regione, o roba del genere. Sebbene molti dei momenti più intensi della mia vita da metallaro li debba proprio agli Slayer, come il devastante concerto al Tattoo The Planet dopo il fattaccio delle Torri Gemelle a cui ho assistito a pochi passi da Jeff Hanneman, dopo Repentless e in parte già con i due dischi che lo precedevano sono arrivato a sbottare e ad affermare che sarebbe stato un bene se gli Slayer si fossero sciolti. A dire il vero lo dissi già due anni prima, perché il loro compositore principale – non dei tempi recenti, ma di molta della loro migliore musica – se ne era andato ed era stato semplicemente rimpiazzato, così come i Pantera hanno avuto perlomeno cautela nel dribblare per interi lustri le ricorrenti voci circa una reunion con Zakk Wylde, lasciando trapelare al solo Phil Anselmo tutto l’entusiasmo relativo alla possibile operazione. Uno come Jeff Hanneman non lo sostituisci, neanche se al suo posto fai comparire uno dei chitarristi più rispettabili dell’ intera Bay Area, come Gary Holt. Ma c’è una grossa differenza fra essere il fan indignato dalle decisioni del suo gruppo preferito, e assistere alla pubblicazione sul web di un breve videoclip in cui il medesimo annuncia a tutti quanti che il prossimo tour mondiale sarà l’ultimo per il gruppo statunitense, sempre che non ci abbiano clamorosamente trollato come fecero gli attivissimi Judas Priest qualche tempo fa. Gli scenari a questo punto sono molteplici. Come potete immaginare, la band è sotto contratto con Nuclear Blast e un crescente riscontro di consensi potrebbe ridargli quella voglia di tirare il carro ancora per un po’. Sempre con la speranza che in giro non ci sia tutta questa necessità di ascoltare del nuovo materiale inedito che suoni come When The Stillness Comes.

Ma soprattutto, Tom Araya è da tempo che accenna più o meno velatamente al fatto che gli Slayer siano prossimi al pensionamento, e io lo capisco perché è del 1961 e dai primi ottanta suona una musica che è pura furia cieca e che gioca contro la tua longevità. Da parte mia, escludendo il trattamento barbaro che ci verrebbe riservato da ulteriori prove in studio, preferisco ricordarmeli in forma smagliante ai Gods Of Metal di 16-18 anni fa piuttosto che con il volto del loro cantante che è come se cercasse di fare capolino in mezzo a tutta quella barba bianca. Di band attualmente interessanti da vedere dal vivo ce ne sono un’ infinità, e il ricordo degli Slayer non si cancella di certo, per cui approvo in toto quanto affermato dai The Dillinger Escape Plan non molto tempo fa, anche se affrontare un addio dagli Slayer è un pensiero che – in fondo – una parte di te vorrebbe sempre poter rimandare. Grazie di tutto a loro e ne riparliamo a breve, perché fra non molto Diabolus In Musica sarà giunto al suo ventesimo anniversario, e il tempo mi ha fatto un po’ affezionare pure a lui. (Marco Belardi)

 

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