La dura prova del terzo disco: KREATOR, TESTAMENT e ANNIHILATOR

C’erano un tedesco, un californiano e un canadese. Al top dei risultati più che del successo vero e proprio, tutti e tre ebbero in comune una cosa: la dura prova del terzo disco. Sto parlando di Kreator, Testament e Annihilator i quali – fra il 1987 ed il 1993 – erano reduci da lavori assolutamente convincenti, e ci si poteva solo immaginare che il successivo sigillo sarebbe stato quello del definitivo salto. Era accaduto agli Slayer così come ai Metallica, rimanendo in tema di thrash metal, di giungere all’apice proprio con la pubblicazione numero tre, e per i successivi lustri si parlerà molto di questo fattore, confrontandolo con le similitudini accadute in differenti circostanze ma pur sempre con le medesime tempistiche. Per molti il debutto è stato infatti un momento molto sentito: almeno in quel decennio, il materiale veniva prodotto con relativa calma, pur se caratterizzato da certe imprecisioni di gioventù,  grazie anche al probabile passaggio  dalle versioni embrionali delle demo-tape alla forma definitiva e degna di un’ultima incisione. Alla fine il risultato, anche se lontano dalla forma più matura in cui ci è poi comparsa quella band, non ci avrà lasciato di certo orfani di brani destinati a divenire classici. Se col successivo passo si notava quasi sempre una netta evoluzione, soprattutto di carattere tecnico, il terzo disco di un gruppo in molti casi si caratterizzava come il futuro termine di paragone a cui raffrontarsi, una volta imboccata una lenta parabola discendente non priva di altri significativi sussulti. Naturalmente con le dovute e frequenti eccezioni, e tenendo conto che il thrash metal nella seconda metà degli anni ’80 viveva sì il suo momento d’oro, ma era ancora in uno stato di costante cambiamento.

Ma che è successo allora a quei tre gruppi? In realtà niente, perché i loro capitoli numero tre mi piacciono e neanche poco. Ma nel loro caso, rispetto alle band di Tom Araya e James Hetfield, non è andata esattamente come si sperava.

KREATOR – Terrible Certainty (1987)

Una copertina devastante, con Mastro Lindo in posa fiera che si appresta a passare in mezzo a svariati leader dei Ghost, non poteva garantire ottimi risvolti. Eppure Terrible Certainty è il logico elemento di passaggio dalla furia incontrollata di Pleasure To Kill all’eleganza dell’ Extreme Aggression di due anni dopo. A differenziare questo dagli altri due sono moltissimi fattori, ma una cosa spicca sulle altre: il dislivello nelle continuità della tracklist. Se nell’album del 1986 si faticava a trovare un pezzo di caratura inferiore agli altri, sempre che realmente ce ne fosse uno, qua i Kreator azzeccano una buona sequela di otto brani in cui forse è proprio la hit di livello assoluto a mancare. Eccezion fatta per No Escape le apprezzo tutte quante, anche laddove Ventor si cimenta nuovamente nel cantato come in As The World Burns. Toxic Trace, One Of Us e la conclusiva e velocissima Behind The Mirror sono probabilmente i momenti che preferisco, ma la goduria che scaturiva dall’ascolto del precedente lavoro era certamente un’altra. Lì non ci si capacitava davvero di come fosse possibile avere per le mani così tanta roba, qua semplicemente si gode e si scapoccia d’innanzi al buonissimo lavoro svolto da un altrettanto valido gruppo. Di positivo, oltre ai suoni decisamente migliorati, c’è da sottolineare la prestazione del sopraccitato batterista che, rispetto al passato, risulta tecnicamente a suo agio, e per questo gli è concessa una libertà espressiva che ahimè non riavrà in futuro. Album più ragionato del suo predecessore anche se ancora molto veloce, e con un Mille Petrozza in rapida evoluzione canora, qui più vicino ai canoni del periodo Extreme AggressionComa Of Souls piuttosto che a quelli passati. I Kreator che diventano i Kreator che tutti quanti conoscono, ma che non bissano un capolavoro immortale come quello che avevano da poco inciso.

TESTAMENT – Practice What You Preach (1989)

Quello che penso dei Testament è in sostanza quanto segue: hanno fatto tre album pazzeschi, ossia i primi due più The Gathering, ed altrettanti che per una ragione o un’altra mi affascinano e – perciò – posso affermare di esserci estremamente legato. Gli altri a cui appunto accennavo sono il qui trattato, dopodichè Souls Of Black e Low. Il resto della loro discografia lo trovo in linea di massima insopportabile, anche se in The Ritual e Dark Roots Of Earth ci sono sicuramente delle cose che apprezzo. Tolta The Pale King e un paio di episodi carucci, ho trovato una fucilata alle palle perfino l’ultimo. Punto. Practice What You Preach – dicevo – è uno degli album dei Testament a cui invece sono particolarmente affezionato, pur constatandone la palese inferiorità nei confronti dei tre capolavori che hanno sfornato nell’arco di una dozzina di anni. Un logo gigantesco, spropositato come il nome del modello dietro alle più recenti Renault. Eppure suona benissimo, e finisci per ammirarne alcuni brani anche solo per un ormai incontenibile Alex Skolnick, musicista già maturo ai tempi del debutto e qua probabilmente all’apice – almeno per quanto riguarda il suo operato nel genere. Poi c’è una sezione ritmica semplicemente in stato di grazia, con Clemente e Christian posti in netta evidenza dal mixaggio nonostante il livello tecnico del primo dei due non mi abbia mai fatto sobbalzare sulla sedia. Dopo la solida title-track viene sparato il primo pezzo da novanta – Perilous Nation – e poi pure Time Is Coming si difende assai bene, ma è il finale a risollevare finalmente le sorti di questo disco. Se Sins Of Omission e The Ballad sono i due momenti più capaci di fargli fare il botto, è tuttavia evidente quanto impietoso lo scalino con il precedente The New Order, in cui erano contenute circa cinque autentiche perle del calibro di Trial By Fire o Into The Pit. Insomma, un lavoro gradevole ma anche un deciso passo indietro per i californiani. Souls Of Black sarà dotato di una maggiore personalità, oltre che di una cosa pazzesca come Face In The Sky, ma il discorso sarà più o meno lo stesso.

ANNIHILATOR – Set The World On Fire (1993)

Qua il discorso è leggermente diverso, perché gli anni ottanta erano già stati archiviati e i tempi in oggetto erano quelli del gigantesco tour del Black Album, delle hit da capogiro come Symphony Of Destruction e della onnipresente parola groove. Solo che gli Annihilator erano reduci da due lavori ottimi e Never, Neverland in particolar modo si presentava con un trittico di avvio da urlo, oltre che con cavalli da battaglia come Phantasmagoria oppure l’altro pezzo canonico che lo chiudeva, l’efficace I Am In Command. Ho sempre trovato gli Annihilator di un rango decisamente più basso rispetto ai grandi del genere speed ‘n’ thrash, ma è innegabile che un tipo dalle indubbie qualità – ma assai imprevedibile – come Waters abbia scritto grandissime cose, in carriera. Piuttosto, non riesco a spiegarmi come in molti apprezzino quella bruttura cosmica di King Of The Kill in cui penso di avere digerito solamente Second To None, e la massiccia quanto ripetitiva The Box. Ma nel 1993 i problemi di Jeff, che per inciso è anche il nome del mio ultra-aggressivo gatto, erano ben altri. La Roadrunner rompeva incessantemente il cazzo e lo speed tecnico degli esordi andava rimpiazzato con qualcosa di più variopinto e accessibile. Non che la proposta degli Annihilator fosse ostica quanto quella degli Abruptum, ma i tempi erano noti a tutti e suonare in una certa maniera poteva significare fare pacchi di soldi. No, con Set The World On Fire comincerà – qui in maniera solo accennata – la inesorabile retromarcia del gruppo canadese: sound prosciugato fino all’ osso, licenziamento di un cantante capace come Coburn Pharr in favore di Aaron Randall, e in più una line-up in cui spiccherà più che altro la meteora Mike Mangini (Dream Theater). All’album non mancano le vette, anzi: il suo essere così eterogeneo è un po’ croce e delizia di questo lavoro, ed alcuni dei momenti più morbidi – come la ballad Phoenix Rising – risulteranno anche i migliori. L’energia di Knight Jumps Queen, così come la buona accoppiata conclusiva dominata dall’ estro di Brain Dance salveranno un album capace di mostrarci anche momenti indecorosi, come Sounds Good To Me o The Edge, in cui un’ attitudine inspiegabilmente radiofonica vedrà Waters tanto a proprio agio quanto una ninfomane che risiede in un appartamento con tre coinquilini che passano le giornate a giocare ai meravigliosi Call Of Duty di mezzo. (Marco Belardi)

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