Chiedi chi erano i Sodom


Coi gruppi tedeschi capita spesso di imbattersi in quelle formazioni ammalate di coerenza che nel corso degli anni sono state tacciate di suonare sempre alla stessa maniera. Si tirano per esempio in ballo Accept, Rage o Sodom, anche se in realtà tutti e tre – a un certo punto della loro carriera – sono andati a parare da tutt’altra parte con risultati più o meno apprezzabili. Eat The Heat nel caso dei primi, il periodo che seguiva End Of All Days per la band di Peter Wagner, e poi ecco che tocca ai Sodom. Questi ultimi hanno in realtà portato avanti un discorso evolutivo proprio – perlomeno fino a Get What You Deserve del 1994 – ed è per questo che ho in mente di approfondire il loro caso. Il problema di Tom Angelripper e relativa cricca è sempre stato il bere. Dimenticate gli anni dello studente universitario che improvvisa l’ennesima birreria artigianale non tenendo conto della folta concorrenza, e pensando che coi suoi prelibati luppoli si tromberà tutte le porcelle del quartiere: questi bevevano per davvero e ci hanno rimesso, negli anni, la solidità delle migliori line-up nonché la salute del batterista più rappresentativo. E se nei ’90 – per un certo periodo – sono finiti per non azzeccarne proprio una, è stato proprio a causa dell’alcolismo. Ma andiamo con ordine.

Affrontando i loro primi vagiti con lo stesso piglio col quale parleremmo di Possessed o Sarcofago nei riguardi di death e black metal, ritengo comunque ciò che i Sodom hanno prodotto fino al 1986 un pelino meno influente nei confronti del metallo nero, rispetto a quella pietra miliare che fu il micidiale I.N.R.I. dei brasiliani. Un po’ per la differenza di qualità, un po’ perché molti brani del primo EP In The Sign Of Evil erano decisamente superiori a quelli dell’ album di debutto che, sul momento, rallentò sensibilmente la loro corsa non potendo bissare una Outbreak Of Evil o una Blasphemer. Inoltre I.N.R.I., di cui ho trattato i contenuti in un recente articolo, era molto più estremo nell’estetica così come nei suoni e negli intenti, perciò considero il disco concepito da Wagner Lamounier come il più vicino punto di inizio per una corrente prossima ad esplodere, anche se su sponda principalmente nordeuropea. La storia cambiò rapidamente quando nei Sodom fece ingresso il più importante musicista che Thomas Such abbia mai avuto al suo fianco: Frank “Blackfire” Gosdzik. Quest’ultimo si rivelerà uno dei migliori chitarristi a interpretare in Germania il thrash metal in un’epoca nella quale ci si trovava ancora a cavallo fra l’estremismo senza compromessi di metà ottanta ed il tentativo di dargli sostanza che verrà messo in pratica in album asciutti nei suoni, ma stracolmi di riff come Extreme Aggression dei Kreator

Persecution Mania è il signor disco in cui fece debutto Blackfire alla sei corde. È quasi contemporaneo al feroce Pleasure To Kill, e in sostanza entrambi comportavano in una risposta grezza allo scossone dato dagli Slayer nel 1986 oltreoceano. Si sente che la band doveva ancora maturare, ma non è per niente un male: i Sarcofago stessi non avrebbero mai potuto realizzare una gemma come I.N.R.I. se in quel momento fossero stati dei musicisti decenti, e di lì a pochi anni perderanno per strada molta della loro malvagità crogiolandosi nei tecnicismi in parte superflui di cui il buon The Laws Of Scourge è stracolmo. Lo stesso discorso vale per i Sodom, che mai saranno un gruppo reputato “tecnico”, ma che al secondo squillo già vantavano una personalità come quella del neochitarrista. Outbreak Of Evil verrà ri-registrata e si confonderà in mezzo a una miriade di classici intramontabili, perlopiù violentissimi, come Christ Passion, Bombenhagel o l’apripista Nuclear Winter. Poi toccherà al loro capolavoro, il più “americano” mai pensato dai Sodom: Agent Orange. Dopo i Motorhead di Iron Fist toccherà ai Tank sul fronte cover, mentre la scaletta – asciugata e ridotta a soli nove pezzi – troverà in Remember The Fallen (archetipo del loro classico mid-tempo da cantare a squarciagola ai concerti) e Magic Dragon due dei punti più alti in assoluto. Considero Agent Orange uno dei lavori meglio interpretati e prodotti della sua epoca per quello che riguarda il genere intero: merito di Harris Johns, di una formazione pressoché in stato di grazia e di una vena in debito con Lemmy Kilminster che esploderà a più riprese nel corso della loro carriera, e che qua lo farà con veemenza in Ausgebombt.

Le cose non saranno mai più le stesse negli anni successivi. Perso Frank Gosdzik – terrorizzato dai barili di birra che sostituivano gli amplificatori in sala, ed entrato nei Kreator per partecipare all’ ottimo Coma Of Souls – la scarsa longevità degli ottimi Assassin di Interstellar Experience offrirà ai Sodom un chitarrista come Michael Hoffman che, seppur valido, non sarà altrettanto incisivo sul palm-muting e tremolo picking, due cose fondamentali ed in cui Blackfire era stato semplicemente perfetto. La direzione intrapresa da Angelripper si rivelerà totalmente diversa da quella che si pensava fosse stata consolidata nei due ultimi lavori. Better Off Dead esce nel 1990 e, pur non trascurando la velocità grazie a Shellfire Defense, gli preferisce i ritmi alti ma non eccessivi di An Eye For An Eye, Never Healing Wound ed il crescendo di Capture The Flag. Quest’ ultima, l’apice assoluto del disco insieme al roccioso singolo The Saw Is The Law ed alle riuscite cover di Thin Lizzy e – ancora una volta – Tank. Poi, per molti, il baratro. I Sodom a mio avviso sono stati un grandissimo gruppo anche nel successivo lavoro, ma è fuori da ogni dubbio che la pesantezza di Tapping The Vein – coi suoi suoni ai limiti del death metal – ne abbia compromesso la riuscita. Tutti si aspettavano un altro LP facile da metabolizzare, e il trio, nonostante il clamoroso assalto imbastito dalle primissime Body Parts e Skinned Alive, realizzarono qualcosa di effettivamente estremo, ma comunque anche inferiore a ciascuna cosa fatta uscire in passato.

La sede della Drakkar al momento della pubblicazione di Code Red. In altri uffici, si studiava a tavolino come attirare più fica con il contemporaneo Endorama

Non ho ancora speso abbastanza parole per Chris Witchhunter. Adoro quel batterista, era essenziale ma anche molto godibile sui rulli e soprattutto, si amalgamava alla perfezione al sound dei Sodom. E poi nessuno dei suoi sostituti si rivelò effettivamente all’ altezza, né il buon Guido “Atomic Steif” Richter (Holy Moses in Terminal Terror, a raccogliere l’eredità di uno come Uli Kusch), né quel Bobby che entrò in Till Death Do Us Unite e che aveva semplicemente il tocco e la creatività di un taglialegna incaricato di ripulire una vasta area di conifere. Chris è riuscito a farsi buttare fuori da uno come Tom Angelripper perché beveva troppo, che è come essere rimproverati da Peter North perché si gira con il cazzo di fuori. Credo che il momento della sua dipartita – la prima, perché dopo essere ricomparso per le registrazioni di The Final Sign Of Evil, purtroppo, è stato stroncato da una insufficienza renale – abbia significato molto nell’ economia del gruppo. E che lo abbia fatto solamente in negativo. Iniziò da quel momento il periodo “punk” della carriera di Tom Angelripper, in cui gli Onkel Tom si sarebbero di lì a poco messi a cazzeggiare simpaticamente per lunghi anni a venire, all’ insegna della musica da birreria e dello strazio di quelle merdosissime canzoncine natalizie che, per fortuna, anche per quest’ anno sono passate. Get What You Deserve è la prima testimonianza della profonda mutazione dei Sodom e, dopo un EP (Aber Bitte Mit Sahne) ci scagliò contro l’immortale Sodomized, ma anche una scaletta lunghissima, altalenante, e non priva di hit come Jesus Screamer. Per un altro passo indietro commesso dai tedeschi, non ci si potevano immaginare due cose.

La prima è il fatto che dopo Get What You Deserve il gruppo non si sarebbe più realmente evoluto. La seconda è l’uscita del più brutto album mai realizzato dai Sodom, fatta esclusione per i tempi odierni, e per le cose imbarazzanti che appunto escono oggigiorno sotto questo glorioso monicker. In Masquerade in Blood, uscito a metà anni ’90, non sono mai riuscito a salvare praticamente niente, e sebbene Tom Angelripper non abbia più avuto una mezza idea su dove andare a parare a partire da quel momento, sarà probabilmente il suo profondo insuccesso a farlo tornare a suonare thrash metal nel breve volgere dei due successivi lavori, quelli in cui la line-up diverrà stabilissima grazie soprattutto all’ingresso alla chitarra di un semplice mestierante come Bernemann, inarrestabile sul palco nonostante le frequenti stecche tecniche. Usciranno ottime cose, e dopo il transitorio e sottovalutato Till Death Do Us Unite di Fuck The Police (gli fa una sega Radikult), i Sodom torneranno a pestare di brutto, forse plagiando gli Slayer in The Vice Of Killing di Code Red, forse necessitando un’ ulteriore iniezione di Vietnam due anni dopo. Ma comunque assolutamente in grado di tirar fuori uno dei migliori lavori dell’ intera discografia, M-16, che all’epoca mi fece letteralmente sobbalzare sulla sedia nonostante la fitta concorrenza dettata dai quasi contemporanei ritorni eccelsi di Testament, Exodus, Death Angel, Kreator e Destruction.

Una firma qui, grazie!

I Sodom hanno saputo cavalcare l’onda fino al periodo in cui il thrash metal si era definitivamente rimesso a respirare a pieni polmoni, e, sebbene il loro processo evolutivo non fosse andato oltre al 1994, celebro qui l’assoluto valore di questo gruppo a cui non mi resta che perdonare gli scempi sonori che – a partire dall’omonimo album uscito una dozzina di anni fa, ancora sufficiente ma per niente degno di nota – non accennano a terminare. Lunga vita quindi a Tom Angelripper, che al magnifico Gods Of Metal di Monza nel 2002 ebbe perfino il coraggio di chiudere un occhio e buttarla sul comico quando mi presentai davanti a lui chiedendogli l’autografo sopra ad una vecchissima banconota da 1000 Lire su cui campeggiava la scritta “MILLE”. E che avevo inizialmente predestinato all’irreperibile Petrozza, frontman dei più acerrimi fra i rivali. (Marco Belardi)

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