Avere vent’anni: RHAPSODY – Legendary Tales

Pensate a cosa potesse rappresentare un album come questo una ventina d’anni fa per qualcuno, tipo me, appassionato di metal, fantasy, Dungeons & Dragons e videogiochi a tema. Oppure, più in generale, per la scena musicale del periodo, col power metal nei suoi anni di miglior successo, ancorato però a stilemi e sonorità già definite da almeno tre/quattro lustri e quindi, sostanzialmente, in cui nulla fosse realmente nuovo, fresco: giusto fatto meglio, prodotto meglio. Anni di capolavori, come no, ma in continuità col passato, non certo rivoluzionari in senso stretto. Ecco, Legendary Tales invece è stato esattamente questo, una rivoluzione: nessuno suonava così prima di quell’ottobre del 1997, nessuno suonerà così dopo.

Certo, nel corso del tempo i Rhapsody hanno avuto, come ogni gruppo di successo, il loro buon numero di imitatori più o meno riusciti: mi vengono in mente i Dark Moor (che non sono male), i Dragonland (insomma), i Pathfinder (una versione acceleratissima) oppure gli ultimi in ordine temporale, i Twilight Force, che più che limitarsi a copincollare quanto fatto da Turilli e compagnia si sono rivelati proprio un gruppo di minchioni fuori di zucca che praticamente fanno gioco di ruolo ogni volta che suonano qualcosa, con tanto di tizio con le orecchie da elfo che tira le frecce tra una schitarrata e l’altra, il mago che salmodia incantesimi mentre suona le tastiere, il bardo col liuto (elettrico), e insomma avete capito, l’estremizzazione che alla fine diventa caricaturale, macchiettistica. 

I Rhapsody di Legendary Tales hanno dalla loro, oltre all’originalità ed alla freschezza, anche quell’innocenza degli esordi che agli altri gruppi summenzionati manca totalmente, essendo comunque derivativi. Voglio dire, già quella copertina allucinante col guerriero sull’unicorno che lancia la sfida al drago in cielo pronto ad attaccare, sullo sfondo del castello di Mago Zurlì e disegnata penso da un bambino delle elementari, è piuttosto indicativa su quanto Turilli e Staropoli, i padri del gruppo, credessero totalmente nel progetto e prendessero il tutto tremendamente sul serio, per dire talmente sul serio che, non ritenendosi ancora in grado di fare spettacoli dal vivo come li immaginavano nelle loro teste, il primo album dei Rhapsody non ebbe neanche un tour promozionale (che cominciarono a fare dall’album dopo), cosa che non fece altro che alimentare voci circa la reale consistenza del gruppo, visto da molti come una sorta di progetto confinato agli studi di registrazione, aiutato dalle prime tecniche digitali dell’epoca e da una produzione esagerata ed iperpompata. Ancora ricordo discussioni infinite su quanto e come Luca Turilli fosse o meno capace di suonare la chitarra come sul disco o se Daniele Carbonera, il primo batterista del gruppo, fosse in realtà l’anagramma di una drum machine.

Sono sempre Turilli e Staropoli, per dire, che intervistati si inventavano definizioni per lo stile dei Rhapsody tipo ‘Hollywood metal‘ o ‘film score metal‘, non facendo mistero dei sogni grandiosi che avevano per il gruppo, di come avessero fondato un genere e di quanto fossero unici. Col senno di poi mi sento di dargli ragione, tutto sommato: basta riascoltare, che ne so, Land Of Immortals o Forest Of Unicorns o Echoes Of Tragedy o qualsiasi altro pezzo da Legendary Tales per rendersi conto di quanto siano rimasti coerenti a quelli che erano all’epoca, distanti da tutto il resto del mondo metal per perseguire la propria originale, personalissima visione musicale, a volte magari con qualche dettaglio kitsch ma non di meno meritevole di incontestato apprezzamento, fosse anche solo per l’originalità, l’attenzione, la cura maniacale di ogni dettaglio, l’onestà e la dedizione mostrate in anni di onorata carriera, a prescindere da come essi stessi definiscano la loro musica o se vi piacciano perfino.

Ascoltateli, o riascoltateli, e non potrete che essere d’accordo. Altrimenti non capite proprio un cazzo, lasciatevelo dire. (Cesare Carrozzi)

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