GOD SAVE THE LP – Mamma mi si sono accorciati i dischi

Skippare le tracce è una cosa che mi ha sempre dato un certo fastidio, perché considero l’album, inteso come Long Playing solo per motivi di durata e non di formato fisico, un po’ il fermo immagine di quello che la Band era nel preciso “momento” in cui lo ha registrato. C’erano delle determinate persone dietro agli strumenti, uno studio di registrazione con una crew scelta appositamente per realizzare i suoni in una certa maniera, e un periodo storico – ovvero tecnologia, contesto, età anagrafica, e quindi anche modi di pensare e di atteggiarsi – che in precedenza ed in seguito sarebbero per forza di cose stati differenti. Tutte queste cose, sommate alla casa discografica del momento, agli ascolti temporanei di chi componeva e a un sacco di altri fattori, determinavano la realizzazione di un album. Sebbene alcuni possano risultare simili fra loro – chiedere a Peavy Wagner per ulteriori delucidazioni – tutti godono di una pressoché totale unicità: perfino quelli studiati a tavolino in base ai risultati di cosa avesse venduto di più negli anni passati, soprattutto quelli delle grandi pressioni che si potevano ricevere da una potente major.

Il formato CD – che è stato lanciato negli anni ’80, ossia circa un ventennio dopo la musicassetta – ha visto la sua versione scrivibile finire sul mercato solo intorno al 1988. All’ epoca possedere un masterizzatore era più raro di adesso, e i fruitori di musica acquistavano ancora molte cassette perché era estremamente facile copiare la musica. Insomma, per farla breve, l’esplosione del formato “compatto ma piatto” è avvenuta un po’ in ritardo rispetto a quelle che erano le sue annunciate potenzialità. Negli anni ’90 il passaggio – rapido e definitivo – da formato cassetta a CD ha sicuramente comportato una miglioria in termini di qualità e praticità, tuttavia sono accadute delle cose che hanno compromesso la longevità e la credibilità futura degli LP. Ripensate per un attimo agli ultimi grandi trend musicali in ambito rock: quante cazzo di canzoni c’erano in alcuni dischi di punta grunge, o nu metal?

Saltiamo prima agli anni in cui il CD si era già affermato – ma le cassette si reperivano ancora in abbondanza a mio avviso per colpa dei pochi masterizzatori, ed anche dei meccanismi antisalto assenti sui primi lettori portatili, ossia quelli che avrebbero a breve soppiantato i cari walkman. Citerò il 1994 perché è un anno a me caro, nel bene e nel male: mi appassionai al rock, ma purtroppo morirono personalità molto forti come il biondo di Seattle o, uscendo dal contesto strettamente musicale, il mio attore preferito Gian Maria Volontè. In quell’anno uscì inoltre uno di quei dischi che successivamente avrei consumato: Superunknown. Un vinile LP –o 33 giri- raggiungeva la durata di circa un’ora di musica suddivisa in due lati. Col CD si arrivò intorno ai 74 minuti complessivi, una vera goduria per le etichette discografiche che spinsero i musicisti a non scartare più nulla, fornendo al consumatore sempre più materiale a discapito della qualità.

Ciò che sarebbe finito in pattume o release di “B-Side”, acquisì un posto importante all’ interno di album che stavano rivoluzionando il mondo della musica, in un certo senso castrandoli. Ecco perché, pure in un colosso come Superunknown, che ha sedici pezzi al suo interno, finii inevitabilmente per skippare alcune tracce. Ed era di per sè un gesto semplicissimo, ma che poteva far perdere a un metallaro nerdizzato come me alcuni importanti dettagli, che in quel preciso momento storico componevano il sound di alcuni musicisti capaci di attirare la mia attenzione e quella di molti altri rock freaks. Mi sono soffermato su questo aspetto quando ho notato che, dagli anni ’90 fino poco tempo fa, era esplosa la tendenza all’ infarcire di minutaggi eccessivi i nuovi lavori. E la cosa si accentuava nei gruppi di punta: ad esempio ogni album dei Korn da Life Is Peachy fino all’omonimo del 2007, vantava un numero di canzoni non inferiore a tredici. Dopodiché si è invertita la tendenza, sebbene non sia uscito un nuovo Issues.

Lo stesso Josh Homme, uno dei miei musicisti preferiti e ultimamente uno dei più abili nel farmi incazzare, non ha voluto superare le dieci tracce all’ interno dei suoi ultimi due lavori, giovandone tantissimo perlomeno su …Like Clockwork dopo che aveva pubblicato in sequenza tre album lunghissimi. Quella di accorciare ritornando (solo) in questo senso ai tempi del vinile e della musicassetta, è una cosa sicuramente successiva al 2010, ma anche un dato di fatto consolidato: oggi gli album stanno ritornando pian piano più brevi, e la prima volta che me ne sono accorto in maniera lampante fu proprio con i QOTSA. Quali scenari si aprono a questo punto?

È innanzitutto doveroso menzionare Spotify e tutto quello che ruota attorno al mondo dello streaming musicale a pagamento. Lungi dal voler scrivere un articolo da nostalgico su quanto fosse bello il libriccino dei CD e i relativi thanks to al suo interno, sottolineo quanto anche la musica in formato digitale abbia i suoi risvolti positivi: incredibile facilità di fruizione su un dispositivo mobile che portiamo con noi praticamente sempre, e una banca dati enorme che ci mette quasi tutto a disposizione incluse le nuove uscite – reperibili un attimo dopo il loro lancio… ma se finisce per latitare il fascino di una volta? È un aspetto non a favore, ma non mancano pure quelli, e non ha senso fossilizzarsi su come tutto funzionasse alla grande qualche tempo fa. Semplicemente perché una replica di quei tempi non sarebbe più possibile.

Poter realizzare un album di otto tracce anziché di quindici significa per una band un sacco di cose ed oggi, se sta accadendo di nuovo, lo deve al famigerato streaming pay-per-headbang:
– Maggiore tempo a disposizione per portare avanti tournèe ed attività live in generale, oggi fonte dei maggiori introiti di tantissimi gruppi.
– Minor tempo nella realizzazione di un disco, e di conseguenza un abbassamento significativo dei costi di produzione.
– Maggiore tempo per arrangiare le canzoni e curarle nel dettaglio, e quindi un’altra spinta alla qualità generale del prodotto finale che, privo di ulteriori filler (“It’s in your head – It’s in your head – It’s in your head”), potrà solo giovarne.

Una frase che ho sentito di recente e che mi ha disturbato più di quella volta che mi sono sparato venti ravioli al vapore al ristorante cinese, è stata (parole non testuali, ma il concetto era quello): “le band dovrebbero smetterla di pubblicare album con tante canzoni inutili e fare solamente singoli”.

È un concetto che abbraccia perfettamente la musica intesa come un qualcosa che riempie il tuo tragitto casa-lavoro, ma che si scontra con le esigenze del vero appassionato, quello appunto dei booklet e delle edizioni rovistate alle fiere del disco. I Muse hanno abboccato subito allo slogan, a quanto pare più diffuso di quanto si dica, minacciando qualche tempo fa di non voler più realizzare un LP dopo Drones perché i fan un 12 tracce per intero non hanno più voglia -o tempo- di spararselo. Ed ecco il primo singolo solitario, Dig Down, che non si è rivelato proprio un granchè, anzi direi un ritorno alla tamarraggine incontrollata di The 2nd Law. Continuo a ripetere che per molti, oggi, l’intensa attività live è ancora più remunerativa di quella in studio, nonostante Spotify e simili abbiano fatto recuperare un po’ di credito a chi si lamentava di aver accusato un’eccessiva botta (economica) dall’ avvento della generazione Napster.

Dal canto mio, posso soltanto dire che difficilmente è ipotizzabile che un mondo come quello del metal smetta di produrre album per approdare del tutto, o anche solo in parte, ai singoli. È una questione di differenza di necessità con altri tipi di pubblico, e nessuno vorrebbe limitare la forma di espressione attuabile registrando un LP in un contesto come il nostro. Ma guardiamo il bicchiere mezzo pieno, dentro alle nostre “mura” e poco oltre al confine stanno uscendo più album ascoltabili da cima a fondo, e se ancora manca un trend degno di nota, intanto prendiamoci questa cosa che ci arriva dal non affascinante ma funzionale mondo dello streaming a pagamento. (Marco Belardi)

 

18 commenti

  • Basti vedere cosa hanno fatto i Down, qualche anno fa, producendo due EP (dovrebbero arrivare a quattro..) al posto di un album intero: il IV.
    La scusa era stata che, ormai, la gente non ha i soldi per permettersi di acquistare un intero LP. Se, invece, era dettata dalla mancanza di idee chi lo sa?!

    Comunque, sì..l’ho notato anch’io con gli ultimi album di Cradle of Filth e Enslaved!

    Il merito sta anche nel fatto che, l’LP è tornato di moda (bisogna dirlo!) e, si vuole proprio tornare all’antico modo di fruire la musica. Più che al download digitale..
    Ma, questa è una mia opinione! ;)

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    • Quella del vinile penso sia una moda passeggera, mi capita di vedere persone acquistarli per sentirli su un giradischi da meno di 80 euro o che addirittura neanche ce l’hanno, solo perché fa figo averli. Se si ha una collezione già avviata dai genitori ok ma iniziare a comprare vinili in grandi quantità da zero per me è masochismo. Se poi vengono da master digitali sono soldi buttati. Per quanto mi riguarda preferisco di gran lunga il CD, pur con i suoi difetti.

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  • Il “vietato skippare” è uno dei miei precetti morali praticamente da sempre, se metto su un disco punto ad ascoltarlo da capo a piedi, più o meno per gli stessi motivi elencati ad inizio articolo. Ovviamente mi capita spesso di ascoltare tracce isolate – non è che se mi prende voglia di sentire “Farewell and goodnight” metto su tutto Mellon Collie – e allora uso i servizi digitali (spotify, youtube, il mio caro ipod). Comunque la tendenza ad accorciare il minutaggio l’ho notata anche io, e sicuramente ha i suoi aspetti positivi in termini di qualità finale del disco.

    P.S. Considero Superunknown l’album meno skippabile del mondo, in rapporto alla mastodontica lunghezza…come fai a saltare delle tracce? E’ un delitto! ;)

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  • Prima uscivano dischi come Rising, Hemispheres, Octopus, che superavano appena la mezz’ora e non avevano un minuto superfluo, oggi gruppi come Epica, Dream Theater, Neal Morse se ne escono con pipponi sinfonici di 75 e passa minuti. Ci credo che si sta perdendo il concetto di ascoltare un album per intero.

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  • Ringrazio il maligno per questo sviluppo, non se ne può più di mastodonti da 70 minuti che alla meglio ti fanno rimpiangere quei 15 minuti di troppo che potevano essere tagliati in sede di registrazione, alla peggio ti fanno sviluppare testicoli del peso e dimensioni di una palla medica. E a dirlo è uno a cui piacciono da morire le suite da 20 minuti dei vari Crimson e Genesis, per cui non è una questione di pregiudizi.

    Detto questo, si possono citare tante magnifiche eccezioni: non toglierei un secondo ai vari The Mantle, The Perfect Element, Lateralus, Verisakeet anche perché sono album concepiti in funzione di quel tipo di durata, così come Reign In Blood è perfetto anche se dura meno di mezz’ora.

    In conclusione, non c’è niente di male nei dischi da 75 minuti se chi li scrive è capace, in palla e ha qualcosa da trasmettere, ma bravi così in giro ce ne sono pochi. Gli altri dovrebbero avere l’umiltà di scegliere i pezzi migliori ed editarli a morte per liberarli dal grasso in eccesso.

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  • sergente kabukiman

    magari non c’azzecca molto con l’argomento, ma devo ringraziare i vinili. Con internet a casa sono diventato molto più distratto durante gli ascolti, tra youtube e cazzi vari, il vinile invece mi ha “costretto” a riprendere un rito che avevo coi cd fino a qualche anno fa. Non sono un vinilista incallito, però un formato che per certi versi mi sta riportando sulla retta via.

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  • a me i negozi di dischi mancano da morire,c’era tutta una ritualita’ da espletare con la “compagnia”,la birra al bar prima di partire le chiacchiere sulle band le toppe da mostrare ai gruppi di paninari insieme col dito medio etc.e poi l’odore dei vinili.ok sono patetico!

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