Dopo la pizza con l’ananas, la quattro stagioni: WINTERSUN – The Forest Seasons
Sono su queste pagine da luglio, e ricordo che nei primissimi giorni mi passò per la testa di recensire The Forest Seasons dei Wintersun, oggi finalmente una band a tutto tondo dopo che nel debutto avevano assunto la forma di un progetto solista di Jari Maenpaa più un batterista per le sessioni di registrazione. Ancora oggi troviamo Kai Hahto dietro alle pelli, e i due musicisti aggiunti per la realizzazione di Time I sono tuttora presenti, segno di una buona alchimia di gruppo raggiunta – ma dopo questa mia frase faranno certamente la fine dei Wolfmother. Sfortunatamente, l’età che avanza mi ha fatto completamente dimenticare che il disco era uscito, che gli avevo dato un rapido ascolto e che avevo pure letto un paio di recensioni – ricordandomene con Two Paths. Probabilmente, fra altri sei mesi girovagherò per il quartiere coi cani al guinzaglio senza ricordare via e civico a cui riaccasare, e mi verrà affidata una badante bulgara di 19 anni che mi introdurrà -negli ultimi anni di vita- al bondage ed altre pratiche tutto sommato definibili affini al Metal. O forse no.
Senza scomodare Vivaldi e le sue Quattro Stagioni, va detto che già Nargaroth – ovvero il tedesco René Wagner – aveva messo in opera una cosa del genere in ambito Metal col suo Jahreszeiten, che all’ epoca ascoltai quasi per caso apprezzandolo non poco. Ma The Forest Seasons ha fatto parlare di sé in altri termini, nel corso dei cinque anni trascorsi dalla release del suo predecessore in studio: crowdfunding, pubblicità ultrapompata e l’annuncio di una serie di edizioni per accalappiare il fan più esigente. Tutte cose degne del Lars Ulrich dei tempi peggiori, non fosse che Jari Maenpaa (scusate se ometto tutte le volte i puntini, ma potreste avere problemi di visualizzazione e leggere qualcosa di simile a una serie di smile da tastiera Android) è da considerarsi, oggi, uno dei personaggi più influenti -in termini di capacità e risultati raggiunti- della scena metal intera. Soprattutto dopo essere uscito dal guscio degli Ensiferum che, come ho detto poco fa, sicuramente gli stava stretto nonostante ci avesse realizzato un esordio da paura.
Che dire di The Forest Seasons? La produzione ottenuta grazie al cifrone messo a disposizione dai fan non è proprio impeccabile: al basso troviamo Jason Newsted e non un finlandese ex-Norther poiché non lo sentiamo, ma preferisco comunque l’impostazione generale dell’album che pare una sorta di sunto del bagaglio musicale del leader dei Wintersun. Diciamo che se i Children Of Bodom sono stati quasi completamente lasciati alle spalle, troviamo qui un’epicità pomposa ma non straripante, misurabile in livelli simili a quella di certi Moonsorrow. Dunque Folk, su una matrice Metal che varia dal Power Metal ai soliti richiami verso il Black Metal, i quali esploderanno nel corso della stagione autunnale nonché traccia numero tre. The Forest Seasons è meno spinto, sinfonico e stucchevole del lunghissimo Time I, nonostante i contenuti e la ciccia al fuoco siano pure qui un visibilio; e proprio il suo predecessore era a mio avviso un buon capitolo, ma costituisce attualmente l’anello debole della loro discografia. Il nuovo platter risulta caldo in partenza, terminando con un capolavoro di desolazione – e infine maestosità – come Loneliness (ovvero l’inverno secondo Jari Maenpaa). Tuttavia, i rari momenti in cui vengono utilizzati effetti di synth simili a quelli onnipresenti in Spiritual Black Dimensions, sono tecnicamente nonché moralmente insopportabili. Non avrei recuperato questo lavoro – per recensirlo – a distanza di oltre due mesi non si fosse trattato, a mio avviso, di uno dei migliori dischi metal del 2017.
La prossima volta, se dopo cinque anni di vuoto vi chiederanno nuovamente dei soldi perché gli serve un mixer o uno sgabello per il batterista -a prescindere da quanto siano bravi- mandateli pure affanculo. (Marco Belardi)
Questi con la storia del crowdfunding si sono attirati miriadi di antipatie. Cosa che non è mai accaduta a chi ha iniziato con questa modalità: i Marillion. Certo, in quel caso c’era un disegno anche ideologico molto preciso, nonché il pubblicare senza un’etichetta di supporto. Qui invece la cosa puzza di opportunismo all’italiana, però alla fine sti gran cazzi, eh. Se hanno speso un quinto per Studio, strumentistica, registrazione eccetera e il resto è andato in baldracche, baite, vacanze e gesù cristi sono pure affari loro; o al limite di chi gli ha versato soldi a profusione (ma voi un paio di escort, no eh?).
Il disco, al netto dei difetti che giustamente evidenzi, è comunque un signor disco.
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ma poi sti Wintersun… non vi paiono un po’ troppo pompati? il primo album è notevole senza dubbio, ma già il secondo non era sta gran cosa…
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si troppo pompati. io li trovo totalmente inutili ma l’ultimo non l’ho ancora ascoltato
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Ah ecco, pensavo di essere l’unico.
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Bello il primo disco, dimenticabile il resto.
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boh, quest’ultimo non mi pare un granchè, mi appare fortemente moscio, anche io li considero un tantino sopravvalutati. E poi è naturale, quando ci mettono tanto tempo a realizzare un album, aspettarsi il capolavoro e restare conseguentemente delusi ne esce un lavoro troppo normale. Motivo per il quale (OT…) , è meglio che non esca più nessun album dei Tool
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Time I è un luccicante specchietto per le allodole, con standard di produzione inascoltabili per i miei gusti.
Questo nuovo è tutt’altra cosa.
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D’accordo con te, io proprio Time I fatico a portarlo a fondo… è troppo esibizionista e confusionario, questo mi invoglia anche al riascolto anche se rimane pure lui un pochino lungo e con qualche momento morto
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