Il nulla assoluto: ARCH ENEMY – Will To Power

Gli Arch Enemy sono un sedicente gruppo di death metal melodico attivo dagli anni novanta, dove le idee del leader Michael Amott sono risultate dal duemila in poi l’unica cosa realmente estrema. Non ha mai riempito il mare del Giappone di testate missilistiche, ma ha comunque cacciato un ottimo cantante, sbagliato almeno cinque dischi, e trasformato la propria band in un manifesto totale del tanto blaterato fappening.

Nel 2001 ho intervistato Angela Gossow, e quando le dissi che Wages Of Sin non mi era piaciuto in parte avevo mentito, perché si trattava di un album tutto sommato più che accettabile, una sorta di heavy metal for dummies che ti rifili quando non sai cosa mettere su, i Cannibal Corpse sono troppo pesanti per il tuo martellante mal di testa, e in quel momento non capiresti a fondo il senso profondo dei concept targati Pain Of Salvation. Subito dopo Anthems Of Rebellion, però, c’è da dire che sono diventati davvero indifendibili, anche se il web pullula di recensioni che si ostinano a sostenere tutt’altro, e di statistiche – di vendite – che provano quanto gli svedesi in realtà piacciano un po’ dappertutto. Che situazione…

Girava voce che Michael Amott avesse reclutato la Gossow non per farla diventare vegana, ma per averla ascoltata su una demo-tape che risolse all’istante tutti i problemi che possono derivare dall’avere un cantante che tiene la botta in studio, ma che è scandaloso sul palco. O almeno, questo è ciò che si diceva di Johan Liiva. La mangiatrice di Seitan non mi ha mai fatto impazzire come cantante, anzi era partita malissimo, provocandosi con lo sforzo e la cattiva impostazione tecnica dei noduli alle corde vocali e col tempo era – in un certo senso – migliorata. Ora però è manager del gruppo, e che in futuro ripeta o meno le gesta di Gloria Cavalera troviamo al suo posto una pischella canadese dai capelli blu, ma per nulla simile a Bulma, anch’ella vegana e – dettaglio non da poco – molto avvenente. Lo sai Amott che 2+2 fa 4?

Nella speranza di diventare un hacker solo per leggere l’intera cronologia internet dell’ex chitarrista dei Carcass keyword incluse- arrivo a Will To Power dopo tre anni da quel War Eternal che in parte aveva sì riappesantito l’intera faccenda, cercando di accontentare anche i fan della prima ora come me, ma che allo stesso tempo evidenziava con masochismo quanto gli Arch Enemy fossero ormai capaci di svolgere solo il compitino da sei in pagella. Will To Power è più o meno sullo stesso livello del suo predecessore, anzi mi sembra di notare un impercettibile passo indietro, ma risulta sicuramente migliore degli ultimi lavori con Diane Kruger 2.0 dietro al microfono. Più che altro, assomiglia a uno di quei film Marvel il cui contenuto è riassumibile in [Thor + (Ant-Man – Captain America) : Iron Man] VS. Hulk inizialmente cattivo, ma si uniscono tutti ed evitano -non senza danni- che un Villain imprevisto rada al suolo una metropoli.

É il nulla assoluto. Will To Power è formalmente perfetto, proprio come accade in quei blockbuster patinati coi quali -mentre stai cercando l’auto nel parcheggio del multisala, pigiando come un ossesso sul telecomando per fare accendere qualche quadrupla freccia nel buio perché non la trovi- già non ti ricordi niente di quello che hai appena visto. Al termine della cover finale nonché traccia quattordici ti senti un po’ come se Tommy Lee Jones in giacca scura ti avesse detto “guarda qui”.

Al contrario di quei film americani in cui vengono scelti i migliori del loro campo per svolgere una missione ardua, qua troviamo Jeff Loomis a non fare ciò per cui è divenuto celebre: scrivere riff memorabili. Poiché “se devo assumere il compositore dei Nevermore per poi fargli scrivere qualcosa ci rinuncio, perché sono stato dai sindacati e mi hanno detto che a quel punto devo anche pagarlo di più”. La sezione ritmica è come al solito impeccabile, ma anche castrata dalla produzione ultra-standardizzata che sembra uno di quegli sbagliatissimi filtri fotografici che rendono tutto uguale a tutto.

E infine Bulma va per la sua strada, monocorde, in attesa di certificato INPS per noduli. Per non finire sulla annosa questione della donna-non-donna, così come non sostituirei una fuoriclasse con impostazione da soprano come Tarja Turunen con Tobias Sammet solo perché è un uomo capace di salire di tono, eviterei a questo punto di fare altre cazzate e mi toglierei la soddisfazione di mirare a realizzare l’album migliore possibile coi musicisti più adatti alla situazione, e non con le figurine della Panini. Ma cosa paga di più oggi, la qualità o la cura dell’immagine? Sono gli anni di Instagram, non di Reign In Blood.

Il disco l’ho sentito e risentito e ho pure durato una fatica bestia a finirlo. I testi parlano del solito minestrone rivoluzionario in stile “non abbassatevi ai potenti, con annesse sottotrame anti-religiose già palesate in passato soprattutto nel brutto Doomsday Machine. I due singoli finora estratti, nell’attesa che diventino il doppio come se si avesse per le mani Rust In Peace, sono The Eagle Flies Alone e la più ripetitiva The World Is Yours, dotata di una melodia portante mandata avanti in mille salse fino a farti scoppiare il cervello come fossimo in Scanners, come quando a mensa avanza il roast-beef e il giorno dopo diventa polpettone agro-toscano della nonna.

E alla fine quella roba finisce talmente dappertutto, che inizi ad accusare bestiali disturbi gastro-intestinali e ad ispirare le lyrics di chiunque suoni grindcore. Poi c’è per fortuna un accenno di rovescio della medaglia, come First Day In Hell, cadenzata ed efficace, e riesce a spiccare pure Dreams Of Retribution, che dimostra come il gruppo si trovi decisamente più a proprio agio suonando un power metal estremizzato e giocandosela sulle melodie facili, piuttosto che restando in preda ad un delirante metal estremo da prima serata Canale Cinque, e sciorinando una sequela di riff banali e ai limiti del generatore casuale. Il resto sinceramente già non me lo ricordo. Ci sono il cantato pulito, le orchestrazioni, le cose in grande, ma sembra di guardare uno di quei mandarini già sbucciati e infilati dentro a una asettica confezione di plastica trasparente. (Marco Belardi)

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