Under 50 che riempiono gli stadi: FOO FIGHTERS – Concrete And Gold

Ho sempre ritenuto i Foo Fighters un gruppo da singoli, ovvero una di quelle band abili nel tirare fuori canzoni assurde, qualche volta addirittura capaci di segnare un’epoca, ma che alla prova del disco intero ti sfracellano facilmente i coglioni. Esclusi infatti il loro LP più amato dai fan, The Colour And The Shape, ed il recente Wasting Light, alla band di Dave Grohl è più o meno sempre andata così. Singoli pazzeschi come The Pretender o All My Life infilati in scalette troppo deboli per essere vere, e per rappresentare un nome come quello dell’ex batterista dei Nirvana, che oggi ha la responsabilità di far girare al meglio uno dei pochi gruppi Under 50 assolutamente capaci di riempire uno stadio. Eccetto Pat Smear s’intende, perché è del ‘59.

Divido la loro discografia in tre parti di altrettanti album, per un totale di nove lavori usciti sinora: una prima in cui con esuberanza Grohl godeva finalmente di libertà compositiva e si esprimeva bene, ma ancora in ombra del suo passato e ingombrante gruppo; una seconda in cui tenevano botta soltanto le hit ma gli album erano diventati semplicemente brutti; infine l’ultima trilogia, quella in cui assodato il rientro in pianta stabile di Smear, i Foo Fighters hanno capito che piazzare in alto un titolo in Billboard non poteva essere in eterno l’unico obiettivo. Wasting Light era davvero belloccio, e lo era quasi da cima a fondo.

Sfortunatamente, così come accaduto in occasione del pretenzioso album doppio In Your Honor, anche con Sonic Highways il polistrumentista originario dell’Ohio ha voluto strafare cacciando fuori qualcosa che di giusto aveva soltanto la produzione, oltre alla impegnativa idea dei documentari/serie. La miglior cosa da fare in questi casi è tirare una riga, possibilmente non alla maniera di certi eredi di note famiglie piemontesi, e ricominciare un po’ da capo. Concrete And Gold non è un vero e proprio reset, ma alla stessa maniera di Villains dei Queens Of The Stone Age vede il gruppo avvicinarsi ad un produttore poco canonico, il che comporta certamente dei rischi.

Il dualismo -in senso buono- con Josh Homme è una cosa di cui ho discusso già nell’altra recensione: i due leader hanno scherzato sul fatto che entrambi gli album venissero registrati praticamente in contemporanea, generando una sorta di sfida scherzosa sul meglio riuscito a lavori finiti. In questo senso i Queens Of The Stone Age ne escono facilmente presi a cazzi in faccia, anche se quel che a me interessa sottolineare è come sia Mark Ronson, sia Greg Kurstin abbiano messo nero su bianco una cosa su tutte: la volontà dei mostri attuali del Rock da classifica di virare rotta, e affidarsi a qualcuno che aggiunga personalità ed un tocco proprio ad un sound che non si vuole far ristagnare. Il provare a conquistare questo mondo tanto decantato in maniera anthemica qualche settimana fa, con risultati purtroppo alterni e mai miracolosi.

Eppure era facile continuare a lavorare con Butch Vig, il produttore di Nevermind, di alcuni dei migliori album degli Smashing Pumpkins e dei Sonic Youth, nonché degli ultimi due Foo Fighters. Il risultato sarebbe stato in un certo senso garantito, ma probabilmente Grohl voleva conferire ai brani quella veste che -effettivamente- ho scoperto essere il vero punto di forza di Concrete And Gold. Perché questo disco suona fottutamente bene. Non ha una Everlong né una Learn To Fly, così come Wasting Light vantava buonissimi singoli come Rope o Walk, senza dimostrarsi un album incentrato su di essi; ma il livello delle canzoni è sufficientemente buono da confermare come il passo fatto, stavolta, sia in avanti.

Grohl non dice una cazzata quando afferma che l’anima è sostanzialmente pop, e l’involucro è la parte ruvida (tirando in ballo i Beatles o i Motorhead tanto per fare due nomi). E nonostante Run –primo singolo- sia sufficientemente paraculo da alternare melodia, pesantezza e le consuete urla nel refrain, da subito si avverte il tocco personale di Kurstin, con un suono essenziale ma profondo, elementare ma potente, classico ed azzeccato e in un certo senso definibile moderno. Quel che non mi torna, è perché i nostri abbiano allestito una line-up a sei membri stabili, in maniera sboronamente maideniana, includendo un tastierista che è conoscenza di Grohl da una vita e mantenendo le tre chitarre quando tutto andrebbe benissimo sotto la guida di tre sole persone senza trasformare il palco in un bar all’ora dei quarti di finale di Champions. Di questo passo, fra un decennio saranno numerosi tipo i Chicago di Saturday In The Park.

Senza dilungarmi in altre cazzate – tipo le figliole di Grohl nel videoclip, cosa che hanno appena sottolineato al Telegiornale – vi dico che The Line rappresenta al meglio la vena pop dei Foo Fighters, quella che nei primi tempi era già presente ma non sempre funzionava, lasciando le cose migliori agli episodi movimentati come Monkey Wrench; che Dirty Water quando attacca fa i Queens Of The Stone Age meglio dei Queens Of The Stone Age attuali, e che sia la psichedelia della title-track finale che il brano a carte mescolate, con il batterista Taylor Hawkins alla voce e il guest Paul McCartney alla batteria non rappresentano proprio i momenti migliori. Ma ci sono pochi filler, come in Wasting Light che era comunque un album migliore di questo.

E se un giorno riuscissero anche a risultare meno stucchevoli in certi frangenti… Ma ormai credo sia un po’ tardi. (Marco Belardi)

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