Avere vent’anni: ‘Somewhere Out in Space’ o la dichiarazione d’orgoglio del power metal

Per capire quanto enorme sia Somewhere Out in Space si potrebbe iniziare già dai suoi primi otto secondi. Quello che è unanimemente considerato uno dei (dieci? cinque? tre?) dischi power metal più belli e rappresentativi dell’intero genere, inizia con un basso slappato. Così, in apertura, manco fossero i Primus. E la canzone in questione, Beyond the Black Hole, è uno dei più grandi inni power metal di sempre, qualcosa che riuscirebbe a convertire in questione persino il più arido e insensibile detrattore del genere preferito dai mangiatori di salsicce. E se un colpo di testa simile sarebbe molto più socialmente accettabile oggi, di sicuro non lo era nel 1997, quando la comunità metallara era praticamente militarizzata in una guerra intestina contro il nu metal o più in generale contro qualsiasi cosa non riconoscesse i Judas Priest come nume tutelare.

La definizione stessa di power metal”, ha detto Piero nell’altra recensione. È un’espressione non perfettamente veritiera, perché il quinto disco dei Gamma Ray è troppo particolare per essere elevato a canone puro e semplice. Ma è comunque un’espressione sufficientemente potente per descrivere quanto quest’album fu rappresentativo, a tal punto da travalicare gli angusti confini del genere per conquistare anche chi del power era poco più che un ascoltatore distratto. Quando iniziarono a uscire vagonate di gruppi identici, tutti in doppia cassa e cantato in falsetto, il power perse rapidamente credibilità, ma rimase comunque nettissima la linea di demarcazione che divideva quella pletora di cloni da Somewhere Out in Space e pochissimi altri album. In questo senso va interpretata la frase di Piero, dunque, e non nel senso di grado zero del power metal – definizione che tutt’al più si addice al precedente Land of the Freeo al limite, si parva licet componere magnis, a molti dei loro successivi, a cominciare da Powerplant. Nel disco in esame, invece, i Gamma Ray si prendono molte licenze, e proprio l’attacco in slappato ne dà un assaggio. Ad esempio The Winged Horse, composta da Henjo Richter, che per qualche motivo ha un sapore vagamente prog; o la bellissima suite Rising Star/Shine On, impensabile da trovare su un disco dei primi Helloween; o ancora The Landing, niente di più che un intermezzo, ma incredibilmente coraggiosa nell’eliminare le chitarre elettriche (che all’epoca erano considerate un vero e proprio discrimine per valutare la dignità di una musica) per usare solo bassi distorti.

A parte queste considerazioni tecniche, rimangono poi le canzoni. L’apertura pompatissima con Beyond the Black Hole già basterebbe da sola, ma il livello rimane altissimo grazie alle varie Man, Martians & Machines, Valley of the Kings o Shine On. Senza voler per forza citare Watcher in the Sky, specie di marchetta per il progetto parallelo Iron Savior, fuori da pochissimo tempo. Non so se questo sia il disco migliore dei Gamma Ray, anche se se la gioca con Heading for Tomorrow e un paio d’altri. Ma di sicuro – e uso questa parola per la terza volta di fila – è il più rappresentativo: non solo di un genere che in quel periodo stava esprimendosi al meglio, ma anche della poetica di Kai Hansen, uno che, a conti fatti, è responsabile della nascita, crescita e maturazione del power metal. Ecco: più che la definizione stessa del power metal, è la dimostrazione di quanto esso avesse davvero da esprimere, al di là dei rigidi confini stilistici in cui si era andato abbastanza presto a incastrare. Somewhere Out in Space è la rivendicazione d’orgoglio del power metal. E ora penso che non sia rimasto molto altro da dire su un album che, alla fine, va semplicemente ascoltato senza troppi ragionamenti. (barg)

 

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