Avere vent’anni: giugno 1997

DECEASED – Fearless Undead Machines

Ciccio Russo: I Deceased sono una delle formazioni più gloriose e sottovalutate dell’intera scena estrema statunitense. Zero compromessi e un suono originale e inclassificabile, che strizzava l’occhio al death tecnico coevo e affondava le radici nel thrash più virulento e sperimentale. Sorta di concept album su un’apocalisse zombi, Fearless Undead Machines approfondisce la svolta melodica intrapresa con il precedente The Blueprints of Madness. Se, dall’altra parte dell’oceano, i giovani alfieri del death svedese rileggevano il canone maideniano, i Deceased guardavano alla tradizione epic/power americana degli anni ’80. E da lì che vengono certe linee di chitarra e certe atmosfere. Da recuperare per rendere onore a una piccola grande band che ha raccolto una misera frazione di quanto avrebbe meritato. Se non li avete mai ascoltati, partite dall’ultimo Surreal Overdose e poi procedete a ritroso.

TESTAMENT – Demonic

Edoardo Giardina: Purtroppo nella vita ho avuto la sfiga di non essere stato adolescente negli anni ’90. E al posto del tape-trading ho sempre attuato un intenso scambio di chiavette USB, modo in cui venni a conoscenza dei Testament per la prima volta. Precisamente con la prima traccia Demonic Refusal e con il suo iniziale: “10, 9, 8, 7, 6, 6, 6…” Adorai la voce in growl di Chuck Billy (già…) e rimasi folgorato da un Gene Hoglan dietro le pelli in una delle sue prove più insipide. A riascoltarlo ad anni di distanza, Demonic è un album estremamente tamarro e quel mezzo conto alla rovescia iniziale era fatto appositamente per far sentire più cattivi i ragazzini che cominciavano a farsi crescere i capelli. Ad essere sincero, i Testament in veste death/groove non mi dispiacciono tuttora, ma c’è da ammettere che Demonic rimane comunque il peggiore di quella parentesi della loro carriera. Tuttavia, per me rappresenta un po’ la prima ragazza con cui sei andato a letto: era una stronza, ti avrebbe tradito poco dopo e tu avresti fatto del sesso di gran lunga migliore in futuro, ma non la dimentichi.

SUNDOWN – Design 19

Trainspotting: I Sundown erano il gruppo di Johnny Hagel (ex Tiamat) e del tizio dei Cemetary di cui al momento non rimembro il nome. Design 19 è il debutto, e si compone essenzialmente di un gothic rock tra Sisters of Mercy e Type 0 Negative con voce catacombale, quattro quarti di batteria e parecchio sintetizzatore, tutto abbastanza gradevole e scorrevole, con qualche notevole picco qua e là. All’epoca ricordo che il tizio dei Cemetary parlava di Design 19 come fosse chissà quale fenomenale novità nel mondo della musica, e invece il disco risulta piacevole proprio per la sua semplicità. Purtroppo d’estate questa musica non rende al massimo, ma provate a dargli un’occasione intorno a novembre, sono abbastanza certo che vi ritroverete quantomeno a battere il piedino.

NAPALM DEATH – Inside The Torn Apart

Ciccio Russo: Il succitato Demonic non sarà il miglior disco dei Testament ma non è certo uno degli esempi peggiori della precocissima crisi di mezza età che in codesto periodo portò a flirtare con l’autodistruzione buona parte della vecchia guardia. Coloro che alla fine degli ’80 avevano fatto la rivoluzione si ritrovarono sorpassati dalla generazione successiva senza nemmeno avere il tempo di respirare. Manco (o appena) trentenni e già reduci, travolti dai boom del black metal, del death svedese, del groove panteriano. Ripercussioni non dissimili da quelle subite poco prima dal rock con l’imporsi del fenomeno grunge. C’è una faccenda che noi vegliardi diamo per scontata ma va spiegata molto bene a chi ha iniziato ad ascoltare metal dopo il 2000: prima di internet le case discografiche macinavano moltissimi più soldi e quindi avevano spesso una forte voce in capitolo sulla strada che doveva pigliare una band in studio. Certo, ‘sto disco esce sempre per Earache ma non era più la Earache di una volta, anche lì si stava cercando di intercettare le direzioni commerciali. Che in quel momento significavano Sepultura, se non Korn. Inside The Torn Apart godé, per qualche motivo inspiegabile, di favori critici superiori al precedente Diatribes ma è più o meno la stessa porcata, al netto di quei tre o quattro pezzi buttati sull’hardcore dove la capoccia te la fanno muovere. Roba come il “singolo” Breed to breathe, risentita oggi, è però ancora più imbarazzante.

MALEVOLENT CREATION – In Cold Blood

Luca Bonetta: I Malevolent Creation hanno sempre avuto un posto speciale nel mio cuore. Come lessi da qualche parte, è come se gli Slayer facessero death metal, e in effetti un po’ è vero: attitudine a pacchi e fronzoli a zero, solo schiaffi e pugni in faccia. Di capitoli debolucci nella loro discografia ce ne sono pochi, e per quanto mi riguarda In Cold Blood è uno di questi. Sì, l’ho detto, e per rincarare la dose vi dico pure che a me il tanto vituperato Stillborn piace un botto. Sarò bastian contrario, ma In Cold Blood coincide con l’inizio di una parziale parabola discendente che ha visto i Malevolent Creation andare sottotono per poi riprendersi solo con The Will To Kill, ovvero ben cinque anni dopo. Il disco in sé non è nemmeno brutto, ma non mi ha entusiasmato come i capitoli precedenti (e i successivi) della band americana. Non un lavoro da dimenticare chiariamo, ma da Phil Fasciana uno si aspetta sempre quel passetto in più che qui è mancato.

SPIRITUALIZED – Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space

Stefano Greco: Le note di copertina dicono: Spiritualized is used to treat the heart and soul. Non è vero, è solo un trucco, Ladies and Gentlemen non è una medicina, è una sostanza stupefacente. E’ solo una dose che serve a cancellare il dolore per un momento. Poi tornano i sudori freddi e la paranoia. 70 minuti che fingono di parlare d’amore ma parlano di dipendenza, o forse è il contrario. L’euforia e il disgusto. L’up e il down. E’ il circolo vizioso fatto di: uso, abuso, astinenza e riassunzione. E la ricaduta è sempre inevitabile perché il male e la cura sono la stessa cosa. Molto spesso utilizzo la scusa dei dischi per raccontarvi gli affari miei. Non stavolta, ci sono segreti che devono rimanere tali. Questo album è stato il prete a cui raccontare tutto e le mie confessioni restano intrappolate nei suoi solchi. Da qualche parte nel libretto sta pure scritto che alla lunga può dare dipendenza, ecco quello è vero.

INTERNAL BLEEDING – The Extinction of Benevolence

Ciccio Russo: Gli Internal Bleeding mi stanno pure simpatici, rozzi e ignoranti come sono, ma non è certo per cattiveria che dischi come questo loro secondo lp all’epoca si beccavano stroncature spietate e irridenti. Erano anni di innovazione e rottura degli schemi, quindi ci stava che nessuno provasse particolare interesse per una copia sbiadita dei primi Suffocation con suoni alla diociaiuti e riff sentiti mille volte. The Extinction of Benevolence è un discreto passo avanti rispetto al pallosissimo esordio Voracious Contempt, uscito l’anno precedente. Gli Internal Bleeding inizieranno però a fare sul serio solo a partire dal successivo Driven to Conquer, dove imboccheranno una strada non dissimile da quella percorsa contemporaneamente dai Dying Fetus.

SUMMONING – Nightshade Forests

Charles: Un EP nato dagli scarti di Dol Guldur e di un vecchio progetto strumentale di Silenius denominato Mirkwood (Bosco Atro)… Detta così suonerà male ai più, ma so che qui non avrò certo bisogno di dare tante spiegazioni a quei pochi di voi, fan terminali, che alla frase ‘gli scarti di Dol Guldur‘ gli si sono comunque rizzati i peli sul braccio. Per tutti gli altri, ai quali consiglio comunque un ascolto, sarà sufficiente sapere che di fatto Nightshade Forests, a parte il bellissimo omonimo Mirkwood, contiene brani meno a fuoco rispetto alla elevatissima media dei Summoning fino ad ora, ma nel complesso risulta essere un EP godibile. I pezzi proposti sono un po’ a metà tra quelli tipicamente ‘marziali’ e quelli tipicamente ‘da colonna sonora’ e parliamo alla fine di una buona mezz’ora di atmosfere ‘summoniche’ che non merita di certo l’oblio. Altri cosiddetti avanzi del periodo Mirkwood/Dol Guldur li ritroveremo qualche anno più avanti nell’altro EP Lost Tales, che ne perseguirà un po’ la logica, seppur con minor efficacia di questo.

UNLEASHED – Warrior

Luca Bonetta: E dopo essermi sputtanato ammettendo il mio amore per quello Stillborn che è considerato un po’ ovunque la ciofeca maxima dei Malevolent Creation, perché non rincarare la dose dicendo che pure l’osteggiato Warrior degli Unleashed è, a mio parere, un gran bel discone. Sarà che è stato il primo disco degli svedesi che ho avuto il piacere di ascoltare ma tant’è, pezzi come Death Metal Victory rientrano di diritto nell’Olimpo delle canzoni generazionali di ogni buon metallaro ignorante. Ho sempre considerato gli Unleashed come la versione svedese dei Bolt Thrower; fondamentalmente fanno lo stesso disco da trent’anni, ma chi si può permettere di dirgli qualcosa?

SWORDMASTER – Postmortem Tales

Ciccio Russo: Complice questa rubrica, vi ho già rotto le palle abbastanza volte su come e perché la Osmose degli anni ’90 fosse la migliore casa discografica della storia. Ribadiamo il concetto con il secondo disco degli Swordmaster, la solita accolita dopolavoristica di ventenni svedesi attivi nel frattempo in altri quarantasei gruppi che, pur avendo tirato su l’ennesimo progetto nato come scusa per ubriacarsi a merda con gli amici il giovedì pomeriggio, riescono comunque a spaccare il culo. Su Crush to dust e Past redemption sembra di ascoltare i The Crown sotto anfetamine. Un pezzo si chiama pure Metallic Devastation, che solo a rileggere il titolo ti vengono i lucciconi. Alla chitarra c’era il fratello di Jon Nodtveidt, Emil, che aveva appena concluso l’esperienza con gli Ophtalamia e cinque anni dopo, insieme proprio al cantante degli Swordmaster, avrebbe fondato i paraculissimi industrial-goticoni Deathstars. Immagino becchi molta più fregna ora, quindi chi sono io per biasimarlo.

RADIOHEAD – OK Computer

Stefano Greco: Alcuni dischi invecchiano bene, altri invecchiano male. OK Computer invece non invecchia proprio, per dire, non saprei dire quale sia il pezzo che preferisco dell’album perché questo cambia ad ogni ascolto ancora oggi. Passionale ma al contempo in qualche maniera anche freddo, il terzo album dei Radiohead è il classico album di transizione di una band a metà strada fra passato e futuro. Da una parte la forma canzone classica dall’altra le sperimentazioni future, luce ed ombra, contrasti ed equilibri precari. OK Computer è qualcosa in più di un capolavoro, è un classico. Uno dei veri grandi classici della nostra epoca.

Trainspotting: Sì, carino, ci sono due pezzi splendidi (Karma Police e Paranoid Android) ma per il resto teorema degli Ulver a manetta e vaffanculo. I Radiohead erano un gruppo della madonna, poi per qualche motivo hanno deciso che scrivere canzoni normali non era più adeguato alla loro statura intellettuale e dunque hanno iniziato gradatamente ad affinarsi nella sofisticata arte di spaccare le palle al prossimo con le loro lagne e le loro fisime da hipster. Dal canto loro gli hipster ovviamente li hanno erti a proprio gruppo feticcio di sempre, tanto che adesso i Radiohead riempiono gli stadi e sono diventati famosissimi pur facendo sinceramente schifo al cazzo. L’unico che capì cosa stava succedendo fu un recensore di Rumore, che lo accolse in maniera molto tiepida; negli anni costui fu costretto a fare ammenda, prostrandosi di fronte alla platea di corrucciati hipster iscritti al DAMS dai quali aveva ricevuto innumerevoli condanne di riprovazione morale. OK Computer è comunque ancora ascoltabile, ma, tanto per dare le proporzioni della cosa, il debutto dei Sundown qui recensito è molto meglio, ed è tutto dire.

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