La reunion dei RHAPSODY e lo spirto guerrier ch’entro ci rugge

A Milano gli orari sono più simili a quelli tedeschi che a quelli romani. Me ne rendo conto sin da subito, perché i Labyrinth attaccano a suonare alle 19 come da programma: io arrivo all’Alcatraz una decina di minuti dopo, convinto di essere in largo anticipo (“figurati se fanno davvero cominciare un concerto alle sette“), e invece no. Mi sono perso dieci minuti dei LABYRINTH, più o meno un terzo della durata del loro concerto, visto che li hanno fatti suonare giusto una mezz’oretta; il che è un peccato, perché Tiranti e compari tirano su un’esibizione davvero pregevole. Discograficamente li ho persi di vista qualche disco fa, ma adesso toccherà fare un ripasso generale: la scaletta è quasi totalmente incentrata sul nuovo Architecture of a God, i cui pezzi suonano maturi, raffinati e con un approccio prog che ben si sposa alle ottime doti tecniche dei musicisti – peraltro oggi c’è addirittura John Macaluso alla batteria. Loro si divertono tantissimo sul palco, specie Thorsen, che sembra un bambino la mattina di Natale. Chiudono con Moonlight, che ci riporta di colpo a fine anni novanta, preparando il terreno per i Rhapsody. Da riscoprire assolutamente.

Ah già, ci sono pure gli EPICA. Seriamente, qualcuno mi sa spiegare il successo degli Epica senza mai nominare la cantante? Quest’anno è la seconda volta che mi capitano davanti, e spero quantomeno di aver esaurito il bonus-merda del 2017. Oggi poi è un incubo che non auguro a nessuno: questi suonano quasi un’ora e mezza e dall’Alcatraz per qualche motivo non si può uscire e rientrare (a proposito: ma perché?), quindi siamo bloccati là dentro con gli Epica che suonano per un’ora e mezza con volumi altissimi, e penso ad alcuni miei colleghi di MS, tipo Ciccio o Piero Tola o il Messicano, che in questa situazione avrebbero tentato di suicidarsi prendendo uno spigolo a testate fortissimo oppure alcolizzandosi fino a lasciarsi morire nei propri liquidi corporei abbracciati al cesso dell’Alcatraz. Di questa scena in particolare mi immaginavo proprio la foto sul giornale del giorno dopo, e se fossi davvero Irvine Welsh saprei sicuramente descriverla meglio. Fortunatamente l’Alcatraz ha lo spazio con le poltroncine su cui rifugiarsi, ché è vero che dagli EFICA (grazie, Maurizio) non puoi scappare, ma quantomeno te li subisci seduto. 

notare come la potenza della holy thunderforce faccia scorrere la cascata al contrario

Eppure in qualche modo sopravviviamo. A metal heart is hard to tear apart. Bear Grylls fa tanto lo splendido a bere il proprio piscio dentro alle carcasse di cammello, ma lo voglio vedere intrappolato in una stanza per un’ora e mezza con gli Epica a cannone. Uno rosica perché potevano far suonare i Labyrinth tutto ‘sto tempo, però per un certo verso la cosa può avere un valore simbolico: come in tutte le queste che si rispettino, per giungere all’obiettivo finale ci sono degli ostacoli a prima vista insormontabili che ti si frappongono davanti; e più prezioso è l’obiettivo, più ardui da superare sono questi ostacoli. Secondo questo ragionamento quindi i RHAPSODY dovevano tirar su proprio un concerto della madonna; e così è stato. Ragazzi, i Rhapsody! Io ho 35 anni, quando uscì Legendary Tales ne avevo 16 (a proposito: prossimamente su Avere vent’anni) e in qualche modo i Rhapsody hanno accompagnato tutta la mia vita. Ho ricordi bellissimi legati ai loro concerti: il primissimo tour di spalla agli Stratovarius di Infinite, il Gods del 2001, le trasferte milanesi di massa a cantare Emerald Sword nella stazione di Milano con gente loschissima che girava intorno alla comitiva tipo i leoni con le zebre, persino il divertentissimo concerto dei Luca Turilli’s Rhapsody all’Orion… e aggiungiamoci anche quello di oggi. I Rhapsody, per i miei coetanei amanti del power metal, hanno rappresentato un modo giocoso e spensierato di interpretare il metallo, e incarnano qualcosa di molto specifico che per noi è arrivato proprio nel momento migliore della nostra vita; e nella nostra vita sono rimasti come il fanciullino pascoliano, àncora di salvezza a cui aggrapparsi per sopravvivere là fuori. Di conseguenza un concerto del genere, con la formazione di Dawn of Victory (a parte Staropoli, sostituito dalle basi preregistrate) che suona tutto Symphony of Enchanted Lands, non può che essere approcciato con nel cuore una gioia quasi infantile. I Rhapsody tirano fuori dei lati socialmente imbarazzanti di noi che però, in un mondo perfetto, sarebbero delle condizioni necessarie per il vivere civile; ed è anche per questo che mi meraviglia la quantità di magliette dei Rhapsody tra il pubblico: è rarissimo vederne qualcuna in giro, quindi è come se questa gente di solito se ne vergogni ma abbia interpretato il concerto come un liberi tutti in cui poter fare outing, diciamo così.

Ed è stato bellissimo, e lo è stato in modo puro, assoluto, sublime. Hanno suonato solo pezzi dei primi quattro album: Land of Immortals, Dawn of Victory, Holy Thunderforce, Lamento Eroico, Rain of a Thousand Flames, Knightrider of Doom, e tutto Symphony, dall’inizio alla fine, suite compresa. L’Alcatraz è strapieno, e TUTTI cantano, contenti, spensierati, felici di essere qui e soprattutto felici di aver incrociato i Rhapsody nelle proprie vite, che altrimenti sarebbero state dimolto più tristi e grigie. La band si diverte almeno quanto noi, con Fabio Lione nella sua migliore prestazione che ricordi e il solito Luca Turilli, che ogni volta ti mette un buonumore addosso che quasi quasi ti dimentichi di quanto il mondo faccia schifo. La gente spende una fortuna in analisti e psicofarmaci, ma secondo me basterebbe l’ascolto periodico dei Rhapsody per migliorare parecchio la situazione. Il pensiero di non poterli rivedere più tutti insieme è una bruttissima botta. Parafrasando quanto detto quella volta per i Dimmu Borgir, GLORIA PERPETUA a chi c’era. Mai come stavolta, la gente non sa che si perde a non essere metallari. (barg)

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