Avere vent’anni: DIMMU BORGIR – Enthrone Darkness Triumphant

Enthrone Darkness Triumphant non è solo uno dei dischi di metal europeo più importanti degli anni novanta, ma è anche uno dei più belli, il che lo rende una pietra miliare della mia generazione. Personalmente non ho mai smesso di ascoltarlo, quindi non è uno di quegli album che riscopro adesso o per cui riesco a trovare nuove chiavi di lettura sulla scorta di ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni. Per dire, Enthrone è uno dei primi dischi che mi sono premurato di mettere sul mio primo iPod una decina d’anni fa, quando la capacità massima era 30 giga e quindi dovevi fare un celebrity deathmatch per valutare cosa mettere e cosa tenere fuori; è sempre stato uno degli ospiti fissi del mio stereo da quando ho uno stereo, e anzi: Enthrone è stato il PRIMO disco che abbia mai messo nello stereo: quando me ne hanno regalato uno personale per i miei sedici anni, per provare come si sentiva ci misi dentro proprio Enthrone, che era uscito da pochi mesi. Mi sono varie volte chiesto perché scelsi proprio sto disco, ma forse fu perché all’epoca, con tutta la naiveté della mia adolescenza, guardavo al capolavoro dei Dimmu Borgir come ad un’esperienza totale, una specie di discesa negli inferi in quattro dimensioni. Cresciuto a orecchiette e Lovecraft, la mia sensibilità è stata evidentemente parecchio influenzata dalla fascinazione che lo scrittore del New England aveva per le opere architettoniche mastodontiche. Nei suoi racconti, i protagonisti si trovavano spesso al cospetto di strutture gigantesche che trasmettevano una perturbante sensazione di morbosità malvagia; e questa sensazione la ritrovavo in Enthrone Darkness Triumphant, che mi portava in un mondo oscuro e sotterraneo, rappresentandomi davanti ai neri castelli infernali in un modo così preciso da darmi quasi l’impressione di poterne descrivere i particolari. Non c’è morbosità lovecraftiana in questo disco, però: la linea rossa che unisce tutti i pezzi è la maestosità. I Dimmu Borgir furono i primi a mettere il testosterone nel black metal; ed è questa una delle cose che li differenziava maggiormente dagli Emperor, che fino a quel momento erano l’unico riferimento per tutto ciò che veniva rubricato come black sinfonico. Inoltre, mentre negli Emperor il Male veniva raffigurato in forma concettuale, nei Dimmu Borgir se ne ha sempre una visione plastica. E, in questo senso, mai come stavolta si può parlare di impalcature sonore. Quindi il succo del discorso è che volevo sentire se lo stereo riuscisse a rendere bene tutto ciò.

Enthrone Darkness Triumphant fu quindi una luce improvvisa, o meglio non luce ma piuttosto oscurità visibile, come diceva quello. Il black metal stava uscendo dal proprio guscio riversandosi sugli altri generi, perché i ragazzini cresciuti durante la primissima ondata norvegese si stavano facendo grandi e prendevano strade separate, anche se ci tenevano a rimarcare che in principio stavano tutti col Libanese. Dal grande calderone black emersero i Dimmu Borgir e i Cradle of Filth ma, se per i secondi il successo commerciale fu legato sostanzialmente all’immagine, data l’osticità della loro indefinibile e complicatissima struttura compositiva, i Dimmu Borgir riuscirono al contrario a sfondare il muro della scena black grazie all’apertura verso tendenze e stilemi più genericamente estremi. Fino a quel momento l’idea che il metallaro medio si era fatto del black metal era quella del suono di una lavatrice scassata con di sottofondo un tizio che batteva forte sul fustino del Dixan, praticamente una specie di caricatura di Under a Funeral Moon. Considerate che all’epoca non c’era internet e quindi si poteva rimanere seriamente con questo pregiudizio per delle cose di cui leggevi sui giornali ma non avevi mai l’occasione di ascoltare.

I Dimmu Borgir furono quindi il primo gruppo dal retroterra black metal a entrare nelle case dei metallari normali. In questo ebbe grande parte la produzione di Peter Tagtgren agli Abyss Studios, che rese l’album più svedese – e quindi più comprensibile per chi fino a quel momento aveva avuto difficoltà ad avvicinarsi al black norvegese ortodosso. In particolare, Enthrone Darkness Triumphant riuscì a unire l’evocatività e il rifferama norvegesi con il suono di scuola svedese, una specie di corrispettivo dei Dissection dall’altra parte della frontiera scandinava. La produzione seppe anche valorizzare il tasso tecnico della band, decisamente lontano dallo stereotipo di lavatrice scassata; certo anche gli Emperor ci sapevano fare con gli strumenti ma per loro il destino fu molto più bieco, perché di lì a qualche anno li avrebbe aspettati un incomprensibile recupero da parte della comunità indie, che improvvisamente e inspiegabilmente iniziò a parlarne benissimo senza ovviamente capirci nulla. Ad ogni modo Enthrone segna lo stato di grazia dei musicisti presenti, dalle linee di batteria di Tjodalv (già dietro le pelli nell’ottimo debutto degli Old Man’s Child) all’ispiratissimo tastierista Stian Aarstad, il tizio col cappello, che praticamente in vita sua ha suonato solo nei primi tre dei Dimmu Borgir; per non parlare dell’eccellente lavorìo di riff degli inseparabili Silenoz e Shagrath, qui anche chitarrista solista. Certo sembra strano nel 2017 parlare bene dei Dimmu Borgir, perché subito dopo questo disco cominciarono a scendere l’impietosa discesa dello schifo. Però un capolavoro come Enthrone Darkness Triumphant ne giustifica comunque l’esistenza, a prescindere da quanto si siano poi impegnati a farsi odiare. (barg)

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